12.11.14

Con mio padre... "festina lente"


(Nota: Festina lente è un motto attribuito all'Imperatore Augusto dallo scrittore latino Svetonio, e significa “affrettati lentamente”. Nel testo Vita di Augusto, Svetonio scrive che Augusto fa riferimento al motto greco σπευδε βραδεως, del quale “festina lente” è la traduzione latina. Più recentemente, nel XVI° secolo, Cosimo I de' Medici si riferì allo stesso motto quando confezionò il simbolo della tartaruga con la vela per farne l'emblema della sua flotta. Nota per la sua lentezza, la tartaruga viene anche intesa come esempio di prudenza; ma se sormontata da una vela gonfiata da quello stesso vento che spinge con forza le navi, diventa allora monito di prudenza e ponderazione affinché le imprese siano coronate da successo. Il simbolo della tartaruga con la vela, abbinata al motto festina lente, è ancora oggi visibile in molte raffigurazioni su soffitti e pavimenti di Palazzo Vecchio a Firenze.)


Mio padre camminava sempre veloce, tanto che – soprattutto quando ero bambino – era difficile stargli al passo. Veloce nell'azione così come nel pensiero, non era però un uomo frettoloso. Anzi: spesso criticava quella smània dei tempi moderni che spinge adulti e bambini a mangiare in fretta, a giocare in fretta, a studiare in fretta, a guadagnare in fretta, a vivere in fretta, per poi morire di colpo. Perché – diceva – in questa frenesia dell'accelerazione non ci si accorge che quei gesti fulminei dei ninja-karateka, quelle veloci pennellate del maestro calligrafo, sono il risultato di un lento e lungo lavoro fatto di accurate osservazioni, di finissime misure, di aggiustamenti minuziosi. La maestria e la padronanza del gesto che fanno l'eccellenza del buon artigiano e del vero artista, si conquistano muovendosi con estrema cura e lentezza.
Infatti quando, con la sua rapida camminata, mio padre raggiungeva il suo studio per esplorare materiali e forme nuove, ecco che il suo muoversi veloce si tramutava in un'attenta lentezza. Ricordo che da bambino passavo ore ed ore ad osservare affascinato la lenta accuratezza dei suoi movimenti e la precisione millimetrica dei suoi gesti. Il suo studio era una specie di oasi temporale dove tutto invitava a rallentare la corsa, a soffermarsi con calma sui minimi dettagli, a prendersi il tempo necessario per esplorare con cura tutte le caratteristiche e le proprietà di un materiale, di un gesto, di uno strumento. Imparai così che la maestria e la padronanza che fanno l'eccellenza dell'artista si conquistano muovendosi con accurata lentezza, per poter cogliere anche il più minimo dettaglio che rende il gesto intelligente.
Prima di affrettarsi a disegnare, dipingere o progettare, mio padre si dava sempre il tempo di studiare bene i materiali sui quali operava: superfici, textures, spessori, elasticità... Le sue mani dialogavano con le diverse resistenze che i materiali esprimevano, senza imporre con la forza la propria volontà ma rispettandone sempre le caratteristiche. Allo stesso modo studiava bene gli strumenti che intendeva usare: come si adattano alla mano e come la mano vi si adatta, le diverse tracce che lasciano, la loro flessibilità, e così via. Il risultato concreto di questa ricerca negoziale appariva poi quasi da solo, e tanto più velocemente e precisamente quanto più lente e accurate erano state le esplorazioni che lo avevano preceduto. Prima di correre al risultato finale – diceva mio padre – bisogna sapersi soffermare con molta calma e attenzione sul percorso, per cercare di coglierne tutte le tappe, le esitazioni, le attese, le erranze, le alternative, le sorprese... Al risultato si arriverà poi naturalmente, e la sua immediata giustezza ci apparirà come un fatto inevitabile.
Chi lavora con i bambini è a volte sorpreso nel vedere come spesso essi si disinteressino delle loro stesse produzioni, disegni o manufatti, una volta realizzati. Il fatto è che il bambino disegna o fabbrica per capire, non per produrre un oggetto preciso. Il bambino gioca per capire e sperimentare questo strano mondo in cui è capitato: è quindi l'azione dello sperimentare che gli interessa, è il percorso della ricerca che lo affascina, non tanto il prodotto materiale che può venirne fuori. Ciò che l'adulto chiama “gioco” è invece per il bambino una cosa molto seria: perché per lui il gioco è fondamentalmente un'attività cognitiva, non un passatempo ludico.
Il percorso della ricerca – sia essa scientifica, tecnologica o artistica – ha i suoi tempi lenti, necessari per esplorare, provare, ricominciare, soffermarsi a riflettere, teorizzare, verificare. Volerli accelerare porta inevitabilmente a togliere senso e interesse alla ricerca; spingere a tutti i costi verso un rapido raggiungimento del risultato finale non può che distruggere le potenzialità educative del percorso che ci permette di raggiungerlo. Perché è soprattutto il percorso che è educativo, più che il risultato! Questo dovrebbe essere il principio di fondo di ogni azione educativa: dare tutto il tempo necessario per la sperimentazione accurata e la libera riflessione, e ritardare il più possibile il momento della conclusione. Perché la risposta chiude e cancella l'universo di possibilità che la domanda aveva aperto.
Anche mio padre era molto più interessato alle domande che non alle risposte. E ad una domanda in particolare: come si potrebbe fare diversamente? Questa domanda, che usava ripetere spesso, a sé stesso prima ancora che agli altri, e che è stata il motore di tutte le sue ricerche, sia di design che artistiche, diventò presto anche per me uno stimolo costante, una guida che ha accompagnato tutta la mia crescita intellettuale, da bambinetto a scolaro, poi da studente a professore universitario. Nella sua apparente semplicità infatti, quella domanda riassume molto bene ed al tempo stesso rende operativo in modo facilmente comprensibile uno dei principi più fondamentali della ricerca scientifica: l'esplorazione sistematica di tutte le possibili variazioni di un'azione.
Non possiamo certo sostituirci al bambino nel suo processo di costruzione mentale: questo infatti non può essere che un'esperienza intima e personale; possiamo però creare ed allestire dei contesti particolari, degli scenari studiati appositamente per favorire l'emergenza delle necessarie coerenza e sinergia tra più processi di interazioni, situati a più livelli di organizzazione, che sono all'opera nello sviluppo cognitivo, affettivo e sociale di ogni individuo.
È proprio questo che Bruno Munari intese realizzare con le sue opere rivolte ai bambini: allestire degli spazi e degli scenari dove sia possibile esplorare in modo intenzionale e consapevole – e non distratto e casuale – le diverse interazioni tra l'azione del gesto e le resistenze della materia, offrendo la più ricca varietà possibile di esperienze visive e tattili; dove sia possibile far interagire diverse strategie di esplorazione, tramite il confronto attento e dialogato tra le proprie azioni e quelle degli altri soggetti che stanno condividendo le stesse esperienze; dove ogni forma di giudizio preconcetto – sia esso estetico, pratico o morale – è momentaneamente sospeso durante tutte le fasi di esplorazione e di confronto, lasciando così libero spazio al piacere della meraviglia e all'entusiasmo della scoperta; dove l'adulto non impone la sua presenza né le sue direttive ma è sempre attento a cogliere ogni più piccola occasione per sottolineare l'intelligenza di un gesto e favorirne così la presa di coscienza, senza però mai voler colonizzare con il proprio vissuto l'esperienza sempre individuale e singolare della costruzione di un pensiero consapevole.
È in questo modo, affrettandosi lentamente, alla ricerca di domande più che di risposte, che va assaporata la ricchezza del percorso che ha portato a questa eccezionale e multiforme produzione di Bruno Munari. Solo così, affrettandosi lentamente come faceva il Maestro, si può cogliere appieno la raffinatezza del suo pensiero creativo.

(Pubblicato in: Munari A. (2013): Festina lente: Affrettati lentamente (in giapponese). Prefazione al catalogo Bruno Munari, The Vangi Sculpture Garden Museum, Ed. Nohara Co.Ltd., 11-14.)


11.5.14

Con mio padre e un proiettore


All'inizio degli anni '50 mio padre ricevette in esame un prototipo di uno dei primi proiettori per diapositive portatili ad uso amatoriale.  Era a sviluppo verticale, come le vecchie lanterne magiche o i proiettori cinematografici: un semplice parallelepipedo rettangolo di lamiera laccata grigia, di circa 10x30x40 cm.  Nella sua dimensione più lunga era diviso verticalmente in due scomparti: quello posteriore era chiuso e conteneva la lampada con le sue lenti focalizzanti; quello anteriore aveva invece sulle due facce laterali opposte degli sportelli che, una volta aperti, permettevano l'accesso ad un vano che comprendeva sul montante anteriore il supporto dell'obiettivo, mentre su quello posteriore – che faceva da divisorio tra i due scomparti – in corrispondenza del retro dell'obiettivo vi era una guida scorrevole dove poter infilare e far scorrere il telaio per la diapositiva.  Il modello definitivo, fabbricato in Italia, fu poi commercializzato dalla Ilford nel 1957 sotto il nome "Sportsman" (foto qui sotto).





Il telaio delle diapositive era composto da una cornicetta quadrata smontabile che manteneva due piccoli vetri trasparenti tra i quali andava inserito il fotogramma da proiettare.  Ogni immagine proiettata richiedeva quindi almeno quattro o cinque minuti di delicate manipolazioni per prepararla: smontaggio del telaio; taglio del fotogramma dalla bobina del film; inserimento dello stesso tra i due vetrini, prealabilmente ben puliti dai granelli di polvere e dalle impronte delle dita; rimontaggio del telaio e suo posizionamento nel supporto scorrevole da collocare sulla rotaia.

Ricordo che non appena mio padre portò a casa quell'apparecchio, passammo subito alcune giornate a proiettare tutte le diapositive che avevamo a disposizione: foto di famiglia, ricordi di viaggi, foto d'essai – che mio padre si divertiva a scattare con la sua piccola macchina fotografica Robot, una delle primissime fotocamere ad avanzamento automatico da fotoreporter, che usava la pellicola cinematografica da 35mm (foto qui sotto).



Interessato anch'io, già da allora, di fotografia, ricordo che l'uso della pellicola cinematografica da 35mm, invece di quella da 6x6cm delle ingombranti Rolleiflex della Franke and Heidecke di Braunschweig, costituì a quell'epoca un'autentica rivoluzione, della quale leggevo con curiosità nelle riviste specializzate e che naturalmente fu oggetto di vivaci polemiche nel mondo della fotografia professionale.  Fu d'altronde un evento che trovò impreparata l'industria stessa della pellicola, che non aveva ancora pensato di mettere in commercio delle confezioni di pellicola 35mm adatte a questo nuovo uso fotografico e non cinematografico.  Ricordo infatti che per caricare la pellicola da 35mm nella piccola Robot bisognava prima tagliarne un pezzo della lunghezza giusta da una bobina cinematografica, e poi arrotolarlo nello speciale caricatore fornito dalla Robot – il tutto naturalmente ben rinchiusi nella luce rossa della camera oscura!   E poi, dopo, bisognava anche trovare un fotografo sufficientemente bene attrezzato – e ben disposto – che fosse d'accordo di sviluppare quegli strani caricatori...  A ripensarci oggi, nell'era della fotografia digitale, sembra proprio di parlare di secoli addietro, allorché sono trascorse soltanto tre generazioni!


Ma ritorniamo a quelle giornate di grande eccitazione per la scoperta di quel nuovo apparecchio.  Dopo aver proiettato tutte le diapositive disponibili, provammo anche a proiettare i negativi di vecchie fotografie in bianco e nero – magari un po' ingialliti, e anche di formato diverso: bastava ritagliarli affinché entrassero nel telaio.  Abituati fino allora ad osservare un negativo soltanto nelle sue dimensioni originali, o al massimo con una lente di ingrandimento, faceva una certa impressione vederli così grandi, proiettati sulla parete bianca dello studio.  Ricordo che commentammo insieme, un po' sorpresi, l'infinità di gradazioni di grigio che queste grandi immagini ci permettevano di scoprire, dando così vita e rilievo a delle zone d'ombra che fino allora sembravano solo dei piatti fondali.


Poi, esaurite tutte le foto, mio padre disse: e adesso, cosa si potrebbe proiettare d'altro?  Che cosa d'altro si sarebbe potuto mettere tra i due vetrini del telaietto della diapositiva da proiettare, che non fosse un fotogramma di una pellicola?  Ci mettemmo allora con grande entusiasmo alla ricerca di tutto ciò che poteva prestarsi a questo scopo: un pezzetto di cellophane colorato, una cartina trasparente di caramella, un pezzettino di sottile buccia di cipolla, un brandello di sacchetto di plastica, una goccia di colla...  Ecco che sulla parete dello studio cominciarono così ad apparire grandi forme stupefacenti e colori inaspettati – a dire il vero ben più interessanti delle fotografie di prima.  Pian piano con mio padre imparavo a riconoscere i materiali che meglio si prestavano a questo gioco, e ad anticipare l'effetto che potevano produrre una volta proiettati.  Fu in quel momento che compresi appieno la differenza tra un pigmento colorato illuminato di luce riflessa e lo stesso colore prodotto da un fascio di luce colorata: la differenza cioè tra sintesi sottrattiva e sintesi additiva – della quale avevo già sentito parlare a scuola senza però averne preso coscienza in un modo così vivido e immediato.


Poi provammo ad intervenire su quei materiali in tanti modi diversi: scoprimmo così che il sottile film trasparente incolore dei sacchetti di plastica, una volta tirato con forza e strappato, perdeva lungo lo strappo la propria trasparenza per acquisire delle leggere sfumature iridescenti – come quelle che fa apparire un sottile velo d'olio che galleggia sull'acqua; oppure che un pezzetto di cellophane colorato, quando veniva graffiato, stirato o bruciacchiato, poteva rivelare delle sfumature inattese di colore; oppure ancora che una piccola goccia di colla trasparente poteva assumere tante forme diverse a seconda di come veniva pressata tra i due vetrini del telaio; e così via, in un gioco di sperimentazioni senza fine, interrotto ogni tanto dai richiami innervositi di mia madre che ci ricordava l'ora del pranzo o della cena.


Così, da macchina “banale” e prevedibile che era, ecco che quel semplice proiettore era diventato uno strumento di affascinante ricerca visiva.  E non solo statica.  Fin da bambino mi divertivo a collezionare delle piccole bottiglie di vetro, come quelle dei campioni di profumi, e mi ricordai in quel momento che fra le bottigliette della mia collezione ve n'era una rettangolare piccola, larga e piuttosto piatta: la riempii d'acqua e riuscii a disporla nel proiettore, appoggiata sulla guida per i telai delle diapositive; poi, con un contagoccie preso dall'armadietto delle medicine di mia madre, gli feci cadere dentro una piccola goccia di inchiostro di china nero.  Siccome il proiettore rovesciava di 180° l'immagine originale quando la proiettava, ecco allora apparire sul muro bianco la forma un po' inquietante di un enorme nuvola nera che saliva lentamente dal basso, come il caratteristico “fungo” di una bomba atomica!  Ecco che quel proiettore “statico” diventava un nuovo tipo di proiettore “dinamico”, capace di far apparire delle fantastiche forme in movimento... avevo inventato un nuovo tipo di cinematografia!


Quell'entusiasmante gioco di esplorazione durò parecchie settimane, durante le quali sperimentammo tutti i materiali disponibili e tutti gli effetti possibili.  Ma il momento forse più importante fu quando ci venne in mente di esplorare in che modo quei materiali proiettabili avrebbero potuto reagire all'applicazione di filtri polarizzanti.  Erano trascorsi una ventina d'anni da quando Edwin Land aveva inventato i filtri Polaroid, ma solo da poco tempo si potevano trovare in commercio, anche se a caro prezzo, e non soltanto come occhiali da sole ma anche sotto forma di fogli polivinilici flessibili di diverso spessore, che era possibile ritagliare nelle forme volute.  Ovviamente mio padre, sempre attentissimo ai più recenti sviluppi tecnologici, se ne era già procurato alcuni pezzi: provammo così a sistemare, appena dietro la rotaia sulla quale venivano inseriti i telai da proiettare, un primo filtro polarizzante; il secondo filtro lo tenevamo invece in mano, in modo da poterlo muovere e ruotare liberamente davanti all'obbiettivo del proiettore, per intercettarne il fascio di luce.  Ricordo benissimo l'emozione che provammo nel veder nascere così davanti ai nostri occhi, e trasformarsi in innumerevoli gradazioni che si sviluppavano lungo tutta la gamma dello spettro, dei magnifici colori di una brillantezza straordinaria.  La meraviglia fu ancor più grande quando scoprimmo che anche un pezzetto di cellophane incolore, ripiegato più volte su sé stesso, quando veniva attraversato dalla luce polarizzata faceva apparire una miriade di colori, ognuno dei quali poi si traformava gradualmente nel suo complementare se si ruotava il filtro posto davanti l'obbiettivo.  Anche questa volta quel proiettore diventava “dinamico”, capace di creare delle forme animate e mutevoli che la cinematografia di allora era incapace di far apparire.


Fu così che nacquero quelle che poi furono chiamate le “Proiezioni dirette”, che in una tiepida serata dell'autunno 1953 mio padre ed io presentammo, per la prima volta in pubblico, in un'affollatissima sala della Galleria Studio B24 in via Borgonuovo a Milano.


Mi piace ricordare questo episodio, perché trovo che sia particolarmente esemplare del modo di lavorare di mio padre.  Tutta la sua produzione artistica, così originale, eterogenea e diversificata – dalle opere astratte alla grafica, dalle sculture alle costruzioni polimateriche, dal design alla didattica – è stata in effetti sempre animata e sospinta da un'unica, semplice ma costante domanda: come si potrebbe fare diversamente?   È questa stessa domanda che mio padre aveva l'abitudine di chiedermi, quando, bambino, gli mostravo tutto fiero un disegno o una costruzione che avevo appena terminato, oppure quando insieme a lui studiavamo un nuovo oggetto o una nuova tecnologia: “...bello, bene... – diceva – ma come si potrebbe fare altrimenti?  In quanti altri modi diversi si potrebbe realizzare? Cosa d'altro si potrebbe fare con questo?


Sono domande come queste che ci obbligano ad uscire dalle nostre confortanti abitudini di pensiero, dai nostri stereotipi culturali, per andare ad avventurarci in quel meraviglioso e quasi infinito universo di alternative possibili, aprendoci al fascino della scoperta, al coraggio dell'innovazione, al desiderio dell'eccellenza.  Sono domande di questo tipo che certamente hanno animato e tutt'ora animano i grandi scienziati, gli inventori geniali, gli imprenditori di successo.  Ogni grande invenzione, nel campo della scienza, della tecnologia o dell'arte, è nata dalla mente di chi non si è accontentato di accettare le cose così come sono, ma si è invece chiesto: come si potrebbe fare diversamente?



Come ho spiegato più in dettaglio in un mio recente scritto [“Morfogenesi e conoscenza”. In P.L. Amietta, D. Fabbri, A. Munari, P. Trupia: I destini cresciuti. Quattro percorsi nell'apprendere adulto. Milano: FrancoAngeli, 2011, 219-301.], è ancora quella stessa domanda – poi riveduta ed ampliata, alla luce dei miei studi sulla genesi dei processi cognitivi – che mi ha guidato e tutt'ora guida le mie ricerche e le mie riflessioni: perché mai, tra le innumerevoli forme che avrebbe potuto prendere, una cosa – sia essa un oggetto, un essere vivente, un comportamento, un pensiero... – ha assunto proprio quella forma e non un'altra

Se poi rivolgiamo questa domanda verso noi stessi, con lo sguardo dello psicologo piuttosto che con quello dell'artista o del biologo, potremmo allora chiederci: perché siamo quello che siamo, allorché avremmo potuto essere differenti

Foto proiettore Ilford tratta dal sito http://www.photomemorabilia.co.uk/Ilford/Slide_Projectors.html  (accesso 18.04.2012).
Foto macchina Robot tratta dal sito http://corsopolaris.net/supercameras/robot/robot2.html (accesso 18.04.2012).


Testo pubblicato in inglese sotto il titolo: "How could it be done differently?" nel catalogo della mostra Bruno Munari: My Futurist Past tenutasi dal 19.09 al 23.12.2012 a Londra presso la Estorick Collection of Modern Italian Art, a cura di M.Hajek & L. Zaffarano.