18.11.16

Con mio padre, conversando


(Ho ritrovato per caso il testo di un'intervista che feci a mio padre nel 1986 e che fu poi pubblicata sulla rivista Domus n° 677, del novembre 1986. Mi è sembrata ancora attuale e ho pensato di condividerla anche qui, così com'era, senza modifiche.)



AM: In che momento della tua vita hai saputo che la tua strada era quella dell' artista? E come l'hai saputo? Era solo un desiderio, all'inizio, o qualcosa di più? Un sentimento, una convinzione interiore? Sentivi già di avere qualcosa di originale da esprimere? Avevi già allora il desiderio di lasciare una traccia personale nella storia dell'arte e delle idee?

BM: Non c' è stato un momento preciso, nella mia infanzia e nella mia vita, in cui mi sono accorto che la mia strada sarebbe stata quella dell' artista. C'è sempre stata una specie di "dissolvenza incrociata" tra la vita normale di paese (ero fino a 18 anni a Badia Polesine) e una mia attvità che oggi si definirebbe "creativa", provocata dalla curiosità e dalla voglia di fare qualcosa di diverso dal solito. Da ragazzo (e tanto meno da bambino) non ho mai avuto giocattoli come oggi hanno tutti i bambini, però me li inventavo e li costruivo con quello che trovavo: un ramo biforcato e due elastici di gomma diventavano una fionda, con dei ritagli di legno si possono costruire molte cose, qualcosa era solo ricostruita, ma ogni tanto qualcosa era anche reinventata. Avevo sempre in tasca un temperino molto ben affilato, col quale mi divertivo a tagliuzzare rametti secchi e assicelle di piombo oppure canne palustri. Le canne mi hanno sempre interessato molto per la loro natura, per il vuoto interno chiuso, ogni tanto, da un diaframma. Tagliando le canne secondo la loro natura venivano fuori oggetti diversi (chissà se questa esperienza giovanile mi è servita quando ho disegnato vasi di bambù per i giapponesi?). Un altro materiale molto usato allora dai ragazzi era il sambuco, con il suo midollo elastico che permetteva di costruire tante cose. In quel periodo avevo uno zio liutaio ed io ero spesso nel suo laboratorio a vedere come curvava le lamelle di acero per fare la curva laterale dei violini: bagnava queste lamelle di acero e le appoggiava poi su di una superficie metallica curva, scaldata con una fiammella ad alcool per curvarle. In questo laboratorio potevo prendere dei ritagli di legno, tenerli fermi con la morsa e lavorarli con le sgorbie bellissime e affilatissime dello zio Vittorio. Mi piaceva moltissimo lavorare con i materiali e gli strumenti artigiani, mi piaceva molto di più che non aiutare i miei genitori nella loro attività alberghiera. Mi piaceva l'odore e il tatto del legno, l'odore delle vernici che lo zio si costruiva con la gomma lacca per lucidare i violini, mi piaceva costruire, tagliare, incollare, progettare. Avevo anche 2 amici che dipingevano, e qualche volta andavo con loro, a copiare paesaggi dal vero, olio su tela. Facevamo dei piccoli quadretti che poi esponevamo nella vetrina del cartolaio del paese.

AM
: Come fai a sapere quando un lavoro (un quadro, un oggetto, un design grafico ecc.) può dirsi "finito", quando cioè non vi è più niente da aggiungere o da modificare? Quando si può dire che è "giusto"?  E in che misura questi stessi criteri possono servirti per apprezzare un lavoro fatto da un altro? Questi criteri, possono essere insegnati?

BM: Come si fa a sapere quando un quadro o un altro lavoro è finito? Per il lavoro del design potrei dire: quando tutte le componenti del problema sono risolte bene e assemblate con coerenza. E queste componenti sono materiche, tecnologiche, formali, spaziali, economiche, cromatiche, psicologiche e naturalmente funzionali... Quando hai trovato i materiali più giusti per costruire quell'oggetto, le tecnologie più adatte a quel materiale scelto, la forma più giusta che ne consegue, quando l'ingombro è minimo e la funzionalità è massima, quando a parità di funzioni costa a meno, quando la lavorazione di progettazione è la più semplice, quando la cosa non ha bisogno di manutenzioni speciali, quando la gente capisce subito cos'è e a che cosa serve, quando l'aspetto estetico è "naturale" come quello di un insetto o di un fiore, e non appiccicato dopo... Insomma quando, a parità di funzioni, più semplice di così non si può fare. Questo è il metodo che io credo sia il più giusto per progettare bene, ed è anche insegnabile dato che è basato sulla logica. Mentre per ciò che riguarda l'estetica, si tratta, io credo, di formarsi una cultura  senza confini e più vasta possibile nel senso storico-geografico.
Come si fa a sapere quando un'opera d'arte è finita? Qui il problema riguarda di più una sensibilità personale, che può essere educata e coltivata da una continua educazione storico-geografica, dei moderni sviluppi dei modi di fare l'arte, delle sue tecniche e regole continuamente inventate, e anche dalla conoscenza di come si formano le forme della natura. Gli studi di bionica sono un grande aiuto per la formazione di un pensiero progettuale artistico, orientato all'essenzialità dei mezzi e alla messa a fuoco estetica. E questo si puo anche insegnare, in parte, cominciando alle scuole materne, abituando i bambini a non essere superficiali, ad affinare l'osservazione sulle forme e le strutture di ciò che abbiamo intorno a noi (vedi gli esempi sugli alberi e le loro strutture). Si tratta di orientare la curiosità infantile innata (che poi è bene conservare dentro di sé per tutta la vita) e impedire la formazione di stereotipi, e di capire le cose come realmente sono.

AM: Che posto occupano, nell'insieme della tua produzione, i laboratori per i bambini? In che misura possono essere considerati una conseguenza logica del tuo lavoro precedente? Quali sarebbero i tuoi suggerimenti per una pedagogia dell'arte? Le cose che hai imparato da quest'esperienza dei laboratori in Giappone e in Venezuela, sono diverse da quelle che hai appreso dall'esperienza dei laboratori in Italia?

BM: Credo che i laboratori per bambini sono una logica conseguenza di tutto il mio lavoro fino a oggi. Io penso che una maggiore attività in questo campo, grazie sia alle richeste che vengono da vari Paesi, sia alla collaborazione di molti giovani, aiuti a formare e a sviluppare nel modo migliore la personalità degli individui delle nuove e delle nuovissime generazioni. Ho notato che i bambini di qualunque nazione: Italia, Svizzera, Giappone, Venezuela, Spagna, Israele, Stati Uniti, Francia... reagiscono tutti nello stesso modo, capiscono subito e si mettono subito a fare, salvo piccole differenze locali. Ai bambini piacciono le regole e queste – anche la più semplice – danno sicurezza: i giochi infantili hanno tutti una regola. Se noi adulti riusciamo a spiegare attraverso una semplice regola, un problema di progettazione semplice, diamo ai bambini il mezzo per esprimersi, giocando... a disegnare un albero, per esempio. L'editore Zanichelli ha pubblicato un libretto intitolato "alberi disegnati dai bambini secondo il metodo Munari" dove si può constatare come questo metodo semplice dia ottimi risultati, senza bisogno di raccontare delle favole sciocche come fanno molti adulti quando si rivolgono ai bambini. I bambini sono intelligenza allo stato puro e hanno recettori sensoriali tutti aperti e in funzione. Stimolando con azioni dirette la loro curiosità di conoscere per fare, si può comunicare con bambini di tutte le nazioni, bambini di ogni tipo ma tutti con gli occhi attenti, pronti a capire e fare quello che avevano visto fare da noi. Già tra di loro: questi bambini ad esempio, figli dei dipendenti dell'ONU, giocavano assieme senza bisogno di spiegare a parole un gioco. Un bambino mostrava come si fa, e gli altri volevano subito provare a fare. Ecco il metodo!

AM: Quali sono i lavori, i temi, le problematiche, ecc..., che senti il bisogno di sviluppare ora? Cosa senti di non aver ancora sufficientemente capito, e che vorresti capire meglio? Cosa pensi di aver insufficientemente sviluppato, e che vorresti sviluppare di più? Cosa pensi di aver sbagliato, e che vorresti riprendere e correggere? Quali nuove esplorazioni vorresti intraprendere, in campi che ancora non hai toccato?

BM
: Per mia natura sono sempre pronto a modificare il mio pensiero, se trovo delle ragioni logiche che mi fanno capire dove ho sbagliato. È con questa continua verifica che si annullano le idee fisse e si migliora sempre la progettazione. Sono sempre stato attratto da diversi campi di attività, molto diversi anche da quelli nei quali normalmente opero. Un nuovo materiale, una nuova tecnologia, nuovi strumenti per produrre immagini, mi invitano alla sperimentazione, con la quale si arriva a conoscere più profondamente tutto ciò che farà poi parte della progettazione intesa in senso globale. Naturalmente non posso seguire tutto da solo. Per certe ricerche speciali o per problemi più vasti, di solito io formo dei gruppi di lavoro composti da esperti, specialmente nei casi dove io non ho abbastanza conoscenze. In questo modo io posso coordinare un lavoro di gruppo mantenendo una coerenza progettuale in modo soddisfacente. Il lavoro che io considero, per ora, il più importante come progetto di design, è quello della messa a punto continua di un metodo didattico per la stimolazione della creatività infantile. Per la realizzazione di sempre nuovi laboratori per bambini in varie parti del mondo, nei musei e nelle grandi mostre. Adesso sto mettendo a punto un laboratorio per bambini sul design, su come si fa a progettare, cominciando dalla scuola materna con la conoscenza dei materiali e delle loro qualità. Già questo è un bel gioco interessante per i bambini. Questi laboratori per bambini – quello di Brera del 1977 sulle arti visive, quello di Faenza sulla ceramica, quello sulla stampa fatto a Imperia, quello tattile annesso alla mostra "le mani guardano" al Beaubourg di Parigi, quello sulla carta, e molti altri ancora – sono in certi casi diventati un servizio sociale per le scuole e anche per gli anziani, oltre che per i bambini.

12.11.14

Con mio padre... "festina lente"


(Nota: Festina lente è un motto attribuito all'Imperatore Augusto dallo scrittore latino Svetonio, e significa “affrettati lentamente”. Nel testo Vita di Augusto, Svetonio scrive che Augusto fa riferimento al motto greco σπευδε βραδεως, del quale “festina lente” è la traduzione latina. Più recentemente, nel XVI° secolo, Cosimo I de' Medici si riferì allo stesso motto quando confezionò il simbolo della tartaruga con la vela per farne l'emblema della sua flotta. Nota per la sua lentezza, la tartaruga viene anche intesa come esempio di prudenza; ma se sormontata da una vela gonfiata da quello stesso vento che spinge con forza le navi, diventa allora monito di prudenza e ponderazione affinché le imprese siano coronate da successo. Il simbolo della tartaruga con la vela, abbinata al motto festina lente, è ancora oggi visibile in molte raffigurazioni su soffitti e pavimenti di Palazzo Vecchio a Firenze.)


Mio padre camminava sempre veloce, tanto che – soprattutto quando ero bambino – era difficile stargli al passo. Veloce nell'azione così come nel pensiero, non era però un uomo frettoloso. Anzi: spesso criticava quella smània dei tempi moderni che spinge adulti e bambini a mangiare in fretta, a giocare in fretta, a studiare in fretta, a guadagnare in fretta, a vivere in fretta, per poi morire di colpo. Perché – diceva – in questa frenesia dell'accelerazione non ci si accorge che quei gesti fulminei dei ninja-karateka, quelle veloci pennellate del maestro calligrafo, sono il risultato di un lento e lungo lavoro fatto di accurate osservazioni, di finissime misure, di aggiustamenti minuziosi. La maestria e la padronanza del gesto che fanno l'eccellenza del buon artigiano e del vero artista, si conquistano muovendosi con estrema cura e lentezza.
Infatti quando, con la sua rapida camminata, mio padre raggiungeva il suo studio per esplorare materiali e forme nuove, ecco che il suo muoversi veloce si tramutava in un'attenta lentezza. Ricordo che da bambino passavo ore ed ore ad osservare affascinato la lenta accuratezza dei suoi movimenti e la precisione millimetrica dei suoi gesti. Il suo studio era una specie di oasi temporale dove tutto invitava a rallentare la corsa, a soffermarsi con calma sui minimi dettagli, a prendersi il tempo necessario per esplorare con cura tutte le caratteristiche e le proprietà di un materiale, di un gesto, di uno strumento. Imparai così che la maestria e la padronanza che fanno l'eccellenza dell'artista si conquistano muovendosi con accurata lentezza, per poter cogliere anche il più minimo dettaglio che rende il gesto intelligente.
Prima di affrettarsi a disegnare, dipingere o progettare, mio padre si dava sempre il tempo di studiare bene i materiali sui quali operava: superfici, textures, spessori, elasticità... Le sue mani dialogavano con le diverse resistenze che i materiali esprimevano, senza imporre con la forza la propria volontà ma rispettandone sempre le caratteristiche. Allo stesso modo studiava bene gli strumenti che intendeva usare: come si adattano alla mano e come la mano vi si adatta, le diverse tracce che lasciano, la loro flessibilità, e così via. Il risultato concreto di questa ricerca negoziale appariva poi quasi da solo, e tanto più velocemente e precisamente quanto più lente e accurate erano state le esplorazioni che lo avevano preceduto. Prima di correre al risultato finale – diceva mio padre – bisogna sapersi soffermare con molta calma e attenzione sul percorso, per cercare di coglierne tutte le tappe, le esitazioni, le attese, le erranze, le alternative, le sorprese... Al risultato si arriverà poi naturalmente, e la sua immediata giustezza ci apparirà come un fatto inevitabile.
Chi lavora con i bambini è a volte sorpreso nel vedere come spesso essi si disinteressino delle loro stesse produzioni, disegni o manufatti, una volta realizzati. Il fatto è che il bambino disegna o fabbrica per capire, non per produrre un oggetto preciso. Il bambino gioca per capire e sperimentare questo strano mondo in cui è capitato: è quindi l'azione dello sperimentare che gli interessa, è il percorso della ricerca che lo affascina, non tanto il prodotto materiale che può venirne fuori. Ciò che l'adulto chiama “gioco” è invece per il bambino una cosa molto seria: perché per lui il gioco è fondamentalmente un'attività cognitiva, non un passatempo ludico.
Il percorso della ricerca – sia essa scientifica, tecnologica o artistica – ha i suoi tempi lenti, necessari per esplorare, provare, ricominciare, soffermarsi a riflettere, teorizzare, verificare. Volerli accelerare porta inevitabilmente a togliere senso e interesse alla ricerca; spingere a tutti i costi verso un rapido raggiungimento del risultato finale non può che distruggere le potenzialità educative del percorso che ci permette di raggiungerlo. Perché è soprattutto il percorso che è educativo, più che il risultato! Questo dovrebbe essere il principio di fondo di ogni azione educativa: dare tutto il tempo necessario per la sperimentazione accurata e la libera riflessione, e ritardare il più possibile il momento della conclusione. Perché la risposta chiude e cancella l'universo di possibilità che la domanda aveva aperto.
Anche mio padre era molto più interessato alle domande che non alle risposte. E ad una domanda in particolare: come si potrebbe fare diversamente? Questa domanda, che usava ripetere spesso, a sé stesso prima ancora che agli altri, e che è stata il motore di tutte le sue ricerche, sia di design che artistiche, diventò presto anche per me uno stimolo costante, una guida che ha accompagnato tutta la mia crescita intellettuale, da bambinetto a scolaro, poi da studente a professore universitario. Nella sua apparente semplicità infatti, quella domanda riassume molto bene ed al tempo stesso rende operativo in modo facilmente comprensibile uno dei principi più fondamentali della ricerca scientifica: l'esplorazione sistematica di tutte le possibili variazioni di un'azione.
Non possiamo certo sostituirci al bambino nel suo processo di costruzione mentale: questo infatti non può essere che un'esperienza intima e personale; possiamo però creare ed allestire dei contesti particolari, degli scenari studiati appositamente per favorire l'emergenza delle necessarie coerenza e sinergia tra più processi di interazioni, situati a più livelli di organizzazione, che sono all'opera nello sviluppo cognitivo, affettivo e sociale di ogni individuo.
È proprio questo che Bruno Munari intese realizzare con le sue opere rivolte ai bambini: allestire degli spazi e degli scenari dove sia possibile esplorare in modo intenzionale e consapevole – e non distratto e casuale – le diverse interazioni tra l'azione del gesto e le resistenze della materia, offrendo la più ricca varietà possibile di esperienze visive e tattili; dove sia possibile far interagire diverse strategie di esplorazione, tramite il confronto attento e dialogato tra le proprie azioni e quelle degli altri soggetti che stanno condividendo le stesse esperienze; dove ogni forma di giudizio preconcetto – sia esso estetico, pratico o morale – è momentaneamente sospeso durante tutte le fasi di esplorazione e di confronto, lasciando così libero spazio al piacere della meraviglia e all'entusiasmo della scoperta; dove l'adulto non impone la sua presenza né le sue direttive ma è sempre attento a cogliere ogni più piccola occasione per sottolineare l'intelligenza di un gesto e favorirne così la presa di coscienza, senza però mai voler colonizzare con il proprio vissuto l'esperienza sempre individuale e singolare della costruzione di un pensiero consapevole.
È in questo modo, affrettandosi lentamente, alla ricerca di domande più che di risposte, che va assaporata la ricchezza del percorso che ha portato a questa eccezionale e multiforme produzione di Bruno Munari. Solo così, affrettandosi lentamente come faceva il Maestro, si può cogliere appieno la raffinatezza del suo pensiero creativo.

(Pubblicato in: Munari A. (2013): Festina lente: Affrettati lentamente (in giapponese). Prefazione al catalogo Bruno Munari, The Vangi Sculpture Garden Museum, Ed. Nohara Co.Ltd., 11-14.)


11.5.14

Con mio padre e un proiettore


All'inizio degli anni '50 mio padre ricevette in esame un prototipo di uno dei primi proiettori per diapositive portatili ad uso amatoriale.  Era a sviluppo verticale, come le vecchie lanterne magiche o i proiettori cinematografici: un semplice parallelepipedo rettangolo di lamiera laccata grigia, di circa 10x30x40 cm.  Nella sua dimensione più lunga era diviso verticalmente in due scomparti: quello posteriore era chiuso e conteneva la lampada con le sue lenti focalizzanti; quello anteriore aveva invece sulle due facce laterali opposte degli sportelli che, una volta aperti, permettevano l'accesso ad un vano che comprendeva sul montante anteriore il supporto dell'obiettivo, mentre su quello posteriore – che faceva da divisorio tra i due scomparti – in corrispondenza del retro dell'obiettivo vi era una guida scorrevole dove poter infilare e far scorrere il telaio per la diapositiva.  Il modello definitivo, fabbricato in Italia, fu poi commercializzato dalla Ilford nel 1957 sotto il nome "Sportsman" (foto qui sotto).





Il telaio delle diapositive era composto da una cornicetta quadrata smontabile che manteneva due piccoli vetri trasparenti tra i quali andava inserito il fotogramma da proiettare.  Ogni immagine proiettata richiedeva quindi almeno quattro o cinque minuti di delicate manipolazioni per prepararla: smontaggio del telaio; taglio del fotogramma dalla bobina del film; inserimento dello stesso tra i due vetrini, prealabilmente ben puliti dai granelli di polvere e dalle impronte delle dita; rimontaggio del telaio e suo posizionamento nel supporto scorrevole da collocare sulla rotaia.

Ricordo che non appena mio padre portò a casa quell'apparecchio, passammo subito alcune giornate a proiettare tutte le diapositive che avevamo a disposizione: foto di famiglia, ricordi di viaggi, foto d'essai – che mio padre si divertiva a scattare con la sua piccola macchina fotografica Robot, una delle primissime fotocamere ad avanzamento automatico da fotoreporter, che usava la pellicola cinematografica da 35mm (foto qui sotto).



Interessato anch'io, già da allora, di fotografia, ricordo che l'uso della pellicola cinematografica da 35mm, invece di quella da 6x6cm delle ingombranti Rolleiflex della Franke and Heidecke di Braunschweig, costituì a quell'epoca un'autentica rivoluzione, della quale leggevo con curiosità nelle riviste specializzate e che naturalmente fu oggetto di vivaci polemiche nel mondo della fotografia professionale.  Fu d'altronde un evento che trovò impreparata l'industria stessa della pellicola, che non aveva ancora pensato di mettere in commercio delle confezioni di pellicola 35mm adatte a questo nuovo uso fotografico e non cinematografico.  Ricordo infatti che per caricare la pellicola da 35mm nella piccola Robot bisognava prima tagliarne un pezzo della lunghezza giusta da una bobina cinematografica, e poi arrotolarlo nello speciale caricatore fornito dalla Robot – il tutto naturalmente ben rinchiusi nella luce rossa della camera oscura!   E poi, dopo, bisognava anche trovare un fotografo sufficientemente bene attrezzato – e ben disposto – che fosse d'accordo di sviluppare quegli strani caricatori...  A ripensarci oggi, nell'era della fotografia digitale, sembra proprio di parlare di secoli addietro, allorché sono trascorse soltanto tre generazioni!


Ma ritorniamo a quelle giornate di grande eccitazione per la scoperta di quel nuovo apparecchio.  Dopo aver proiettato tutte le diapositive disponibili, provammo anche a proiettare i negativi di vecchie fotografie in bianco e nero – magari un po' ingialliti, e anche di formato diverso: bastava ritagliarli affinché entrassero nel telaio.  Abituati fino allora ad osservare un negativo soltanto nelle sue dimensioni originali, o al massimo con una lente di ingrandimento, faceva una certa impressione vederli così grandi, proiettati sulla parete bianca dello studio.  Ricordo che commentammo insieme, un po' sorpresi, l'infinità di gradazioni di grigio che queste grandi immagini ci permettevano di scoprire, dando così vita e rilievo a delle zone d'ombra che fino allora sembravano solo dei piatti fondali.


Poi, esaurite tutte le foto, mio padre disse: e adesso, cosa si potrebbe proiettare d'altro?  Che cosa d'altro si sarebbe potuto mettere tra i due vetrini del telaietto della diapositiva da proiettare, che non fosse un fotogramma di una pellicola?  Ci mettemmo allora con grande entusiasmo alla ricerca di tutto ciò che poteva prestarsi a questo scopo: un pezzetto di cellophane colorato, una cartina trasparente di caramella, un pezzettino di sottile buccia di cipolla, un brandello di sacchetto di plastica, una goccia di colla...  Ecco che sulla parete dello studio cominciarono così ad apparire grandi forme stupefacenti e colori inaspettati – a dire il vero ben più interessanti delle fotografie di prima.  Pian piano con mio padre imparavo a riconoscere i materiali che meglio si prestavano a questo gioco, e ad anticipare l'effetto che potevano produrre una volta proiettati.  Fu in quel momento che compresi appieno la differenza tra un pigmento colorato illuminato di luce riflessa e lo stesso colore prodotto da un fascio di luce colorata: la differenza cioè tra sintesi sottrattiva e sintesi additiva – della quale avevo già sentito parlare a scuola senza però averne preso coscienza in un modo così vivido e immediato.


Poi provammo ad intervenire su quei materiali in tanti modi diversi: scoprimmo così che il sottile film trasparente incolore dei sacchetti di plastica, una volta tirato con forza e strappato, perdeva lungo lo strappo la propria trasparenza per acquisire delle leggere sfumature iridescenti – come quelle che fa apparire un sottile velo d'olio che galleggia sull'acqua; oppure che un pezzetto di cellophane colorato, quando veniva graffiato, stirato o bruciacchiato, poteva rivelare delle sfumature inattese di colore; oppure ancora che una piccola goccia di colla trasparente poteva assumere tante forme diverse a seconda di come veniva pressata tra i due vetrini del telaio; e così via, in un gioco di sperimentazioni senza fine, interrotto ogni tanto dai richiami innervositi di mia madre che ci ricordava l'ora del pranzo o della cena.


Così, da macchina “banale” e prevedibile che era, ecco che quel semplice proiettore era diventato uno strumento di affascinante ricerca visiva.  E non solo statica.  Fin da bambino mi divertivo a collezionare delle piccole bottiglie di vetro, come quelle dei campioni di profumi, e mi ricordai in quel momento che fra le bottigliette della mia collezione ve n'era una rettangolare piccola, larga e piuttosto piatta: la riempii d'acqua e riuscii a disporla nel proiettore, appoggiata sulla guida per i telai delle diapositive; poi, con un contagoccie preso dall'armadietto delle medicine di mia madre, gli feci cadere dentro una piccola goccia di inchiostro di china nero.  Siccome il proiettore rovesciava di 180° l'immagine originale quando la proiettava, ecco allora apparire sul muro bianco la forma un po' inquietante di un enorme nuvola nera che saliva lentamente dal basso, come il caratteristico “fungo” di una bomba atomica!  Ecco che quel proiettore “statico” diventava un nuovo tipo di proiettore “dinamico”, capace di far apparire delle fantastiche forme in movimento... avevo inventato un nuovo tipo di cinematografia!


Quell'entusiasmante gioco di esplorazione durò parecchie settimane, durante le quali sperimentammo tutti i materiali disponibili e tutti gli effetti possibili.  Ma il momento forse più importante fu quando ci venne in mente di esplorare in che modo quei materiali proiettabili avrebbero potuto reagire all'applicazione di filtri polarizzanti.  Erano trascorsi una ventina d'anni da quando Edwin Land aveva inventato i filtri Polaroid, ma solo da poco tempo si potevano trovare in commercio, anche se a caro prezzo, e non soltanto come occhiali da sole ma anche sotto forma di fogli polivinilici flessibili di diverso spessore, che era possibile ritagliare nelle forme volute.  Ovviamente mio padre, sempre attentissimo ai più recenti sviluppi tecnologici, se ne era già procurato alcuni pezzi: provammo così a sistemare, appena dietro la rotaia sulla quale venivano inseriti i telai da proiettare, un primo filtro polarizzante; il secondo filtro lo tenevamo invece in mano, in modo da poterlo muovere e ruotare liberamente davanti all'obbiettivo del proiettore, per intercettarne il fascio di luce.  Ricordo benissimo l'emozione che provammo nel veder nascere così davanti ai nostri occhi, e trasformarsi in innumerevoli gradazioni che si sviluppavano lungo tutta la gamma dello spettro, dei magnifici colori di una brillantezza straordinaria.  La meraviglia fu ancor più grande quando scoprimmo che anche un pezzetto di cellophane incolore, ripiegato più volte su sé stesso, quando veniva attraversato dalla luce polarizzata faceva apparire una miriade di colori, ognuno dei quali poi si traformava gradualmente nel suo complementare se si ruotava il filtro posto davanti l'obbiettivo.  Anche questa volta quel proiettore diventava “dinamico”, capace di creare delle forme animate e mutevoli che la cinematografia di allora era incapace di far apparire.


Fu così che nacquero quelle che poi furono chiamate le “Proiezioni dirette”, che in una tiepida serata dell'autunno 1953 mio padre ed io presentammo, per la prima volta in pubblico, in un'affollatissima sala della Galleria Studio B24 in via Borgonuovo a Milano.


Mi piace ricordare questo episodio, perché trovo che sia particolarmente esemplare del modo di lavorare di mio padre.  Tutta la sua produzione artistica, così originale, eterogenea e diversificata – dalle opere astratte alla grafica, dalle sculture alle costruzioni polimateriche, dal design alla didattica – è stata in effetti sempre animata e sospinta da un'unica, semplice ma costante domanda: come si potrebbe fare diversamente?   È questa stessa domanda che mio padre aveva l'abitudine di chiedermi, quando, bambino, gli mostravo tutto fiero un disegno o una costruzione che avevo appena terminato, oppure quando insieme a lui studiavamo un nuovo oggetto o una nuova tecnologia: “...bello, bene... – diceva – ma come si potrebbe fare altrimenti?  In quanti altri modi diversi si potrebbe realizzare? Cosa d'altro si potrebbe fare con questo?


Sono domande come queste che ci obbligano ad uscire dalle nostre confortanti abitudini di pensiero, dai nostri stereotipi culturali, per andare ad avventurarci in quel meraviglioso e quasi infinito universo di alternative possibili, aprendoci al fascino della scoperta, al coraggio dell'innovazione, al desiderio dell'eccellenza.  Sono domande di questo tipo che certamente hanno animato e tutt'ora animano i grandi scienziati, gli inventori geniali, gli imprenditori di successo.  Ogni grande invenzione, nel campo della scienza, della tecnologia o dell'arte, è nata dalla mente di chi non si è accontentato di accettare le cose così come sono, ma si è invece chiesto: come si potrebbe fare diversamente?



Come ho spiegato più in dettaglio in un mio recente scritto [“Morfogenesi e conoscenza”. In P.L. Amietta, D. Fabbri, A. Munari, P. Trupia: I destini cresciuti. Quattro percorsi nell'apprendere adulto. Milano: FrancoAngeli, 2011, 219-301.], è ancora quella stessa domanda – poi riveduta ed ampliata, alla luce dei miei studi sulla genesi dei processi cognitivi – che mi ha guidato e tutt'ora guida le mie ricerche e le mie riflessioni: perché mai, tra le innumerevoli forme che avrebbe potuto prendere, una cosa – sia essa un oggetto, un essere vivente, un comportamento, un pensiero... – ha assunto proprio quella forma e non un'altra

Se poi rivolgiamo questa domanda verso noi stessi, con lo sguardo dello psicologo piuttosto che con quello dell'artista o del biologo, potremmo allora chiederci: perché siamo quello che siamo, allorché avremmo potuto essere differenti

Foto proiettore Ilford tratta dal sito http://www.photomemorabilia.co.uk/Ilford/Slide_Projectors.html  (accesso 18.04.2012).
Foto macchina Robot tratta dal sito http://corsopolaris.net/supercameras/robot/robot2.html (accesso 18.04.2012).


Testo pubblicato in inglese sotto il titolo: "How could it be done differently?" nel catalogo della mostra Bruno Munari: My Futurist Past tenutasi dal 19.09 al 23.12.2012 a Londra presso la Estorick Collection of Modern Italian Art, a cura di M.Hajek & L. Zaffarano. 



17.10.07

Con mio padre nel suo studio


Da quand'ero un bambino piccolo fino a quando lasciai la casa di Milano per andare a studiare a Ginevra, e poi in molte altre occasioni ancora, innumerevoli sono state le ore che ho passato accanto a mio padre nel suo studio, a guardarlo lavorare. Sono sempre stato affascinato dalla decisa precisione dei suoi gesti, quando tracciava la prima linea di una futura composizione sul foglio ancora bianco, quando tagliava un pezzo di carta perfettamente in squadra, con quelle sue lunghe forbici che ancora conservo, o quando incollava subito al posto giusto, senza doverlo riposizionare, un ritaglio colorato su di una composizione già elaborata. Non l'ho mai visto ripercorrere con la matita una linea già tracciata, o usare la gomma da cancellare – se non per creare una sfumatura o un punto di luce. E quando le sue agili dita piegavano un filo di ferro, annodavano un filo di nylon o strappavano una stoffa o un cartoncino, non vi era mai traccia di violenza nei suoi gesti, che invece di imporre con la forza la loro volontà cercavano piuttosto di negoziare il loro progetto d'azione con i vincoli e le resistenze che quei materiali esprimevano. Non era un semplice agire, ma una sorta di rispettoso dialogo silente, durante il quale l'intelligenza del gesto interrogava la storia dell'oggetto sul quale stava operando, quasi per ripercorrere il lungo cammino durante il quale l'oggetto aveva acquisito quelle caratteristiche peculiari che ora esprimeva e con le quali bisognava trovare un accordo.
Non passava giorno, quasi, che dai suoi gesti non imparassi qualcosa di nuovo: come sentire con i polpastrelli la venatura di un foglio per sapere da quale parte è meglio piegarlo; come schiacciare con l'unghia del pollice la piegatura della carta affinché risulti ben netta e marcata; come lisciare con il dorso delle dita il pezzo di carta appena incollato e ricoperto da un altro foglio, muovendosi dal centro verso i bordi per evitare la formazione di bolle o pieghe; come tenere con la mano sinistra il foglio di carta che ci si accinge a tagliare, rendendolo solidale della lama inferiore delle forbici lunghe in modo da guidare con maggior esattezza il taglio; come iniziare, con la giusta pressione delle dita, uno strappo affinché risulti ben netto, e poi guidarne con una delicata torsione dei polsi la traiettoria; e molti, molti altri gesti ancora, che a tutt'oggi fanno parte della mia quotidiana manualità.
Noterete che non ho menzionato pennelli, tavolozze, tubetti di colore, vasetti, solventi… come ci si potrebbe aspettare parlando di un artista. Di fatto, nello studio di mio padre questo genere di oggetti fece soltanto una fugace apparizione agli inizi della sua esuberante e multiforme produzione, lasciando nella mia memoria solo una debole, antica traccia. Ho soltanto un vago ricordo di qualche vasetto colorato che odorava stranamente, di alcuni pennelli umidi e di altri un po' più secchi, che occupavano un piccolo angolo del suo tavolo di lavoro quando questo era ancora nel soggiorno-studio-salotto del nostro appartamento al quinto piano. Erano ancora gli anni quaranta; poi, man mano che la sua produzione si diversificava, pennelli e colori lasciarono gradatamente il posto a carte colorate, pennarelli, forbici, nastri adesivi, taglierini, fustelle, corde, plastiche, tessuti… e nello studio degli anni sessanta bisognava andarli a cercare in fondo ad un cassetto. Ricordo che rimasi molto colpito quando un giorno mi disse, vedendomi disegnare un paesaggio: "perché ti affatichi a disegnare il cielo con una matita blu su un foglio bianco? Prendi un foglio azzurro, che è già il cielo, e poi se vuoi disegna le nuvole con la matita bianca!". Certamente: l'attrezzo giusto, con il gesto giusto, al momento giusto, per lo scopo giusto… Ma come si fa a sapere quando si è raggiunto il giusto?
Ne parlammo più volte, in diverse occasioni e in tempi diversi, di questo che per me è sempre stato uno degli interrogativi più affascinanti, perché porta inevitabilmente verso la comprensione della maestria, verso l'esplicitazione e quindi la valorizzazione delle competenze – che oggi è l'essenza stessa del mio mestiere di psicologo ed epistemologo. Ricordo la volta in cui, nella calma del suo studio privo di telefono – e di telefonino, che allora nessuno dei due possedeva – gli raccontai di come, nel lungo processo di costruzione della conoscenza, l'azione concreta costituisca il momento privilegiato in cui prendono forma simultaneamente il soggetto che conosce, l'oggetto che è conosciuto e gli strumenti stessi di questa conoscenza, e di quanto importante ed interessante sia allora riconoscere alla gestualità, sia essa voluta e coscientemente elaborata oppure anche spontanea ed automatizzata, lo statuto di atto intelligente. Ricordo che l'idea di una intelligenza del gesto – idea che oggi costituisce uno dei capisaldi del mio lavoro – gli piacque molto, in particolare perché illuminava con una luce nuova i laboratori per bambini a cui da un certo tempo ormai consacrava molti dei suoi pensieri. In fondo, e malgrado la loro diversità, non era proprio l'intelligenza del gesto che quei laboratori cercavano di promuovere, per poter poi meglio cogliere i segreti della creazione artistica? Ed in fin dei conti, non era dell'intelligenza dei suoi gesti, che testimoniavano tutte quelle opere, quelle prove, quei prototipi disparati che riempivano ogni angolo del suo studio?
Ma un gesto, è sempre "intelligente"? Direi di sì, ma ovviamente con gradazioni diverse: vi sono gesti più intelligenti di altri, così come vi sono persone più intelligenti di altre. Il gesto professionale dell'apprendista è certamente meno intelligente del gesto professionale del maestro d'arte. E così come ogni forma di apprendimento, la ricerca della maestria significa esercitare l'intelligenza del gesto affinché raggiunga i livelli più elevati. Una volta chiesi a mio padre come facesse a distinguere con così grande sicurezza un'opera d'arte da una che non lo era; mi rispose deciso: "l'opera d'arte è tale quando non lascia trasparire la fatica del gesto che l'ha fatta". Il sommo della maestria sarebbe allora quando questa non si lascia più vedere? Il sommo dell'intelligenza del gesto sarebbe allora quando questa scompare? Forse è proprio così, anche per l'intelligenza tout-court: il massimo dell'intelligenza è quando non dà mostra di sè. E' una cosa che ho cominciato ad imparare fin da bambino, quando passavo molte ore accanto a mio padre nel suo studio, a guardarlo lavorare.

Testo pubblicato in: Nello studio con Munari 
Corraini Editore, 2007. 
Con un testo di Alberto Munari, Con mio padre, nel suo studio ed un cortometraggio di Andrea Piccardo in DVD.

Con mio padre a Tokyo


Nel 1968 accompagnai mio padre in quello che fu il suo primo viaggio in Giappone, in occasione di un grande convegno internazionale sul design che si teneva in parte a Tokyo e in parte a Kyoto. Per mio padre quel viaggio fu il primo di una lunga serie, che lo vide interagire per molti anni ancora con numerose istituzioni giapponesi dedicate all'arte, al design e all'educazione creativa dei bambini, dove ha lasciato le profonde e numerose tracce che ancor oggi stiamo onorando. Anche per me fu il primo di una lunga serie di viaggi, nel corso dei quali ho potuto approfondire le affascinanti culture che animano l'estremo oriente, dallo Zen giapponese al Grande Veicolo del Sud-Est asiatico, dalla tradizione Vedica indiana alle millenarie saggezze cinesi.
Quel viaggio fu un'esperienza indimenticabile di profonda condivisione di mille emozioni, grandi e piccole, suscitate dall'incontro reale con quel mondo sino allora soltanto immaginato da lontano. L'emozione di sentirsi così piccoli in una megalopoli che si sviluppa su più piani sovrapposti, attraversati da fiumi veloci di milioni di macchine colorate, ma puntuata qua e là dai tetti rossi e dorati degli antichi templi. La sorpresa di scoprirsi improvvisamente analfabeti, di fronte a tutte quelle scritture per noi indecifrabili, che rendevano vano ogni tentativo di affidarsi alla metropolitana o ad altro mezzo pubblico. Lo stupore di scoprire che i segni e i segnali abituali dell'arredo urbano, apparantemente simili a quelli delle nostre città, acquisivano inaspettatamente altri significati, come ad esempio i numeri civici che seguono l'ordine di costruzione degli edifici e non l'ordine di collocazione nella strada, o ancora il semaforo pedonale che dà il via a tutte le direzioni contemporaneamente. La grande emozione di trovarsi nel tempio di Roanji, davanti a quel giardino tante volte visto in fotografia, e che ora ci appariva nelle sue reali dimensioni, sorprendentemente piccole. O ancora il piacere di camminare scalzi sui pavimenti di legno lucidissimo e caldo dei sacri templi, di riconoscere le infinite nuances di tanti incensi profumati, di assaporare l'odore di muschio delle case tradizionali di Kyoto. Ma soprattutto, per mio padre, l'emozione di scoprire in un mondo così lontano, così tante e profonde affinità con i suoi pensieri e le sue ricerche.

Con mio padre a Harvard


Ricordo ancora il piacere che provavo a tenere fra le dita quel pezzetto di gesso sottile e perfettamente cilindrico come un pastello a cera. Di cerato però aveva soltanto la superficie esterna, che risultava così perfettamente liscia e setosa. Il gesso bianco, all'interno, era invece puro solfato di calcio ma straordinariamente fine e compatto, e lasciava una traccia perfetta sul linoleum verde della grande lavagna che occupava quasi tutta la parete nord dello studio di mio padre. Nella grande stanza a pian terreno, che la Harvard University gli aveva attribuito quando era stato invitato a tenere un corso di un semestre al Carpenter Center for Visual Arts, il sole primaverile che entrava dall'alta vetrata a piccoli riquadri si divertiva ad intrecciare pennellate di luce e piccoli arcobaleni con i segni bianchi lasciati dal mio gessetto.
Stavamo costruendo insieme quello schema che sarebbe poi stato pubblicato a pagina 85 di Design e Comunicazione Visiva – stampato la prima volta da Laterza nel 1968 e tutt'oggi in ristampa – allo scopo di analizzare le possibili modalità di percezione di un messaggio visivo da parte del suo fruitore. Era la primavera 1967, da tre anni ormai avevo conseguito la laurea in psicologia sperimentale all'Università di Ginevra e da più o meno lo stesso periodo stavo lavorando con Jean Piaget ad un programma di ricerca sulla percezione visiva, combinando nell'analisi statistica dei dati raccolti il modello della Signal Detection Theory di Green & Swets con quello costruttivista proposto da Piaget. Ero quindi immerso appieno in quella problematica, quando mio padre mi fece parte delle sue riflessioni sul come avrebbe dovuto essere costruito un messaggio visivo al fine di assicurarne la massima efficacia.
Ricordo il suo attento interesse, quando gli spiegavo che in realtà il luogo di elaborazione del significato di un messaggio si situa sempre presso chi lo riceve, non presso chi lo invia; e che le caratteristiche intrinseche del messaggio, così come del supporto che lo veicola, determinano di fatto solo una piccola parte dell'interpetazione che ne dà chi lo riceve. Questi, poi, è anche luogo di intersezione e di mediazione tra molteplici processi di diversa natura e situati a diversi livelli di realtà – neurofisiologica, sensoriale, operativa, culturale, ecc. – di modo che il grado di prevedibilità della sua risposta è sempre ben lontano dalla certezza.
Mi accorsi che quell'approccio gli risultava nuovo e inatteso – come d'altronde lo era stato per me, sette anni prima, all'inizio dei miei studi. Eravamo infatti entrambi cresciuti nella convinzione che il paradigma della razionalità dovesse sempre, in ultima analisi, sostenere e guidare il funzionamento della natura, delle cose e degli uomini. Mio padre poi era convinto che uno dei compiti fondamentali che avesse da svolgere, in quanto artista e soprattutto designer, fosse appunto quello di svelare e rendere accessibile a tutti la razionalità soggiacente ad ogni manifestazione della realtà.
E forse era proprio per questo che trovava così affascinante, in particolare, il fatto che i modelli di interpretazione proposti dalla Teoria dell'Informazione e dalla Signal Detection Theory – dei quali gli stavo raccontando la storia, iniziata nei primi anni '40 in quell'ambiente ingegneristico dove si sperimentavano i prototipi delle prime macchine cosiddette "intelligenti" – si prestassero così bene a descrivere anche il comportamento di un essere umano.
Mi resi conto che era proprio l'analogia con la macchina che permetteva a mio padre di comprendere meglio i processi che stavamo discutendo e di partecipare più attivamente all'elaborazione di quello schema. L'analogia con la macchina fotografica è infatti molto evidente nella rappresentazione che lo schema propone dei diversi "filtri" (sensoriali, operativi, culturali) attraverso i quali il messaggio è costretto a passare e dai quali sarà inevitabilmente modificato – proprio come, nella pratica della fotografia che mio padre ben conosceva, un filtro rosso o verde modifica sensibilmente il contrasto e la definizione dell'immagine quando viene riprodotta in bianco e nero. E ancora, quella fonte di perturbazioni aleatorie che le teorie dell'informazione chiamano "rumore" prese allora la forma, nel disegno dello schema, di una specie di pulviscolo contro il quale vanno a cozzare le traiettorie iniziali di alcuni messaggi, che vengono così deviati o dispersi, proprio come il pulviscolo galleggiante nell'aria disturba e devia il fascio di luce emesso da un proiettore.
E' anche particolarmente interessante notare come in quello schema figurava una sola, piccola e timida freccia di retroazione, non meglio qualificata se non dall'annotazione che è "interna" al soggetto ricevente. Lo schema infatti non indica la funzione di quella retroazione, né la necessità della sua presenza. Anche nel testo che commenta lo schema, quella freccia viene descritta – peraltro non esplicitamente – come una "risposta interna", che potrebbe anche essere di natura diversa da quella del messaggio ricevuto, e non come una retroazione che agisce, modificandola, sull'interpretazione del messaggio stesso o di analoghi messaggi successivi.
Ricordo molto bene le lunghe conversazioni che ebbi con mio padre, nel suo studio del Carpenter Center e poi nei salotti ovattati del Faculty Club, a proposito di quella piccola timida freccina, che io avrei forse già voluto più grande e meglio definita.
Mi rendevo però conto che per lui, che non aveva ancora avuto, come invece io ebbi, l'occasione e la fortuna di confrontarsi con quella profonda rivoluzione di pensiero provocata dall'avvento della Teoria Generale dei Sistemi, la presenza di un dispositivo interno al soggetto, la cui funzione è di modificarne costantemente le caratteristiche, era difficilmente comprensibile.
Ma la metafora della macchina ci venne ancora una volta in aiuto. Già da un po' di anni infatti erano comparse, non solo nei grandi padiglioni della Olivetti – dove mio padre ebbe l'occasione di osservare le prime "macchine a controllo numerico" – ma anche nella nostra vita quotidiana, delle apparecchiature capaci di "autocorreggersi" e di mantenere nel tempo un'impostazione predefinita, malgrado l'intervento di perturbazioni esterne.
Oggigiorno, fra i nostri elettrodomestici, numerosi sono i dispositivi a termostato – scaldabagno, forno, frigorifero, ecc. – tant'è che non vi prestiamo più alcuna attenzione; bisogna ricordarsi però che per la generazione di mio padre l'avvento del frigorifero costituì una profonda rivoluzione, sia pratica che concettuale, dopo decenni e decenni di fatiche per trasportare pesanti blocchi di ghiaccio con i quali rifornire ogni giorno la "ghiacciaia", e per svuotare poi i secchi dell'acqua che perdeva.
Non fu dunque particolarmente difficile spiegargli il concetto di feed-back negativo: di quel dispositivo di retroazione cioè il cui scopo è di correggere una devianza, uno squilibrio, per riportare il funzionamento dell'apparecchio all'interno di una norma prestabilita – proprio come fa il termostato. Ma era solo questo il significato di quella piccola freccina ricurva all'indietro? Di ristabilire un equilibrio interno, che la ricezione del messaggio avrebbe potuto perturbare? Il soggetto ricevente rimarrebbe dunque sempre immutato, una volta ristabilito l'equilibrio che era stato momentaneamente perturbato dal messaggio ricevuto? Come spiegare il fatto che un messaggio possa a volte indurre un cambiamento permanente nel soggetto che lo riceve? Come spiegare cioè il valore educativo che in certe circostanze anche un messaggio visivo potrebbe avere?
E' qui che incontrammo le maggiori difficoltà. Perché se la metafora della macchina può essere di grande aiuto per spiegare la retroazione negativa, essa diventa addirittura un ostacolo per capire il feed-back positivo. La retroazione positiva è infatti quella che non corregge, ma amplifica una deviazione: ora, nel mondo delle macchine un tal dispositivo porta inevitabilmente alla distruzione, alla saturazione o comunque al bloccaggio della macchina – come ad esempio quando un microfono troppo vicino al suo altoparlante provoca quel fastidioso fischio che satura e rende inservibile l'amplificazione.
Per capire il ruolo non solo utile, ma indispensabile, della retroazione positiva bisogna abbandonare il mondo delle macchine ed entrare in quello del vivente, della biologia. Il feed-back positivo è infatti un dispositivo assolutamente indispensabile ovunque vi sia un processo di mutazione e di crescita: non di una crescita per accumulazione però, bensì di una crescita per cambiamento. E' un dispositivo di questo genere, ad esempio, che all'interno della cellula coglie quel minuscolo fremito nascente e lo amplifica a valanga fino a provocare la scissione della cellula in due nuovi individui.
Ogni essere vivente è un sistema complesso dove innumerevoli dispositivi di retroazione positiva interagiscono con altrettanti dispositivi di retroazione negativa, in un gioco estremamente delicato di equilibri e di squilibri grazie al quale il soggetto vive, si trasforma ed evolve pur conservando la propria identità.
La difficoltà, qui, consiste nell'abbandonare l'ideale vittoriano di un progresso inteso come crescita continua e regolare, guidata da princìpi di fondo immutabili, e nell'accettare invece una concezione della vita intesa come un processo instabile, la cui direzione e le cui caratteristiche possono essere ridefinite ad ogni istante, quindi intaccato da un'irriducibile imprevedibilità locale, anche se globalmente vi si può riconoscere una certa coerenza.
Anche per un uomo aperto alla novità e curioso di ogni punto di vista alternativo, ma pur sempre partecipe del sogno novecentesco di un progresso dovuto alla rinascita della ragione, come era mio padre, non era facile accettare l'idea di un mondo ove il disordine sembra essere la regola, e l'ordine l'eccezzione.
Design e Comunicazione Visiva ha superato la decima ristampa nella sua veste attuale, ed è tutt'ora utilizzato come manuale di riferimento in moltissime scuole di design in Italia e nel mondo – segno evidente della sua perenne freschezza e costante attualità.
Ma riesaminando con i miei occhi di oggi quello schema, mi rendo conto di quanto lontani siano in me quei giorni della primavera 1967 – non tanto dal punto di vista semplicemente cronologico, quanto soprattutto dal punto di vista concettuale. Oggi non riesco più a pensare ad un "emittente" indipendentemente da un "ricevente": non vi è nessun emittente, se non vi è un soggetto che lo riconosca come tale. Né trovo abbia senso parlare di "messaggio", indipendentemente dall'istanza che gli riconosca questo statuto. Non soltanto The medium is the massage – come diceva Marshall McLuhan nel suo libro omonimo, pubblicato proprio in quell'anno 1967 – ma il messaggio è il soggetto – come diremmo noi oggi.
Dopo gli studi pionieristici di Piaget, le "macchine non banali" di Heinz von Foerster e le tesi autopoietiche di Humberto Maturana e Francisco Varela, la conoscenza non ci appare più come la risposta ad un messaggio, né come la riproduzione di una "realtà" ad essa esterna: la conoscenza ci appare invece come la ri-produzione continua e a tutti i livelli di sè stessa: la produzione autonoma delle proprie forme di organizzazione.
In altre parole, oggi quella freccina diventerebbe così grande da inglobare lo schema intero.
Ma allora eravamo nel 1967: la rivoluzione culturale del maggio '68 francese non aveva ancora risvegliato le coscienze, e la "scoperta" della complessità avrebbe sconvolto le scienze della natura e dell'uomo soltanto una quindicina di anni dopo. Quella freccina, allora, rimase così, piccola e discreta, fra le pennellate di luce e i piccoli arcobaleni del sole primaverile del Massachusetts, ma la sua presenza già annunciava l'avvento di una nuova visione del conoscere.

Con mio padre a Panarea


Andavamo quasi ogni giorno fino a Capo Milazzese, lungo il sentiero assolato che passava davanti alla trattoria Cincotta, per visitare i resti del villaggio preistorico, e cercare tra le pietre qualche piccolo frammento che ci potesse raccontare la vita di chi aveva vissuto 2'500 anni addietro in quelle capanne a pianta perfettamente circolare. Anche se a quell'epoca ero un ragazzino, avevo già avuto la possibilità di ammirare reperti e manufatti antichi in diversi musei; mai però avevo avuto prima di allora l'occasione di esplorare un sito archeologico vero e proprio, e per di più così facilmente accessibile, senza recinzioni, senza cartelli, senza guardiani: eravamo quasi sempre soli, mio padre Bruno ed io, su quel piccolo promontorio ancora temperato dalla brezza del mattino. Soli proprio come due veri esploratori, che avessero appena scoperto per primi le vestigia misteriose di un lontano passato. Ogni pietruzza, ogni coccio, ogni scheggia di ossidiana poteva essere un prezioso reperto – oppure un sasso qualsiasi. Cercavamo allora di individuare se qualcosa, un graffio, una linea di frattura, un intaglio, un'appendice di forma strana, poteva suggerire che il frammento che stavamo osservando avesse potuto appartenere a qualcosa di più grande, e tentavamo allora di immaginare l'aspetto che avrebbe avuto l'oggetto completo.
Eravamo così divertiti da questo giocare all'archeologo dilettante, che ben presto la preoccupazione di sapere se veramente si fosse trattato di un reperto prezioso oppure di un frammento casuale divenne secondaria, a fronte del piacere di immaginare oggetti e forme strane a cui avrebbe potuto comunque appartenere. Così, come spesso succede quando si impara un nuovo modo di pensare e di vedere, anche gli oggetti più comuni cominciarono improvvisamente ad acquisire nuovi significati e a suscitare rinnovate curiosità. E ciò non soltanto sul sito del villaggio preistorico, ma ovunque: ecco allora che il coperchio tondo in ferro della cisterna d'acqua piovana della nostra casa in località Ditella, poteva essere visto come un potenziale reperto... magari un frammento della parte centrale dello scudo da combattimento di un antico guerriero? E quel pezzo di legno cotto dal sole – di epoca presumibilmente più recente, visto che era di legno – trovato sotto il mandorlo del giardino, avrebbe potuto essere un frammento della gamba di legno di un misterioso pirata caraibico smarritosi nel mediterraneo? Eccoci allora alla ricerca di un grande foglio di carta bianca, meglio ancora se un po' ingiallita, su cui incollare quel pezzo di legno e disegnarci intorno l'intera gamba di legno, e poi anche tutto il pirata con tanto di benda sull'occhio sinistro (l'occhio di un pirata non può che essere sinistro!). E quell'insieme di macchie di salnitro che avevano fiorito sulla parete nord della camera da letto, così ben disposte l'una accanto all'altra ma a diverse distanze, poteva diventare la mappa di un possibile arcipelago eoliano scomparso da diversi milioni di anni? Bastò allora incollare a fianco di ogni macchia un piccolo cartellino con un nome inventato, per trasformare d'incanto quell'insieme di macchie in un'antica mappa geografica. Quasi ogni oggetto di quella semplice casa bianca e azzurra, quasi ogni pietra o radice secca del giardino del mandorlo, si prestò a questo appassionante gioco, tant'è che ben presto le tre stanze e la terrazza assomigliarono sempre di più ad un museo archeologico che ad una casa di vacanza.
Una volta compiuta, quasi inconsapevolmente, quest'imprevista mutazione, venne allora naturale l'idea di invitare all'inaugurazione del Museo Immaginario delle Isole Eolie il gruppo di amici che ci avevano accompagnato alla scoperta di quell'isola stupenda che allora, nel 1955, era ancora un angolo incontaminato di paradiso mediterraneo. Qualche fiasco di malvasia e un po' di mandorle del giardino bastarono per quel vernissage che verso il tramonto divenne assai affollato, di amici cari come Fulvio Bianconi, Piero Di Blasi, e altri ancora, così come di vicini stupiti e di estranei incuriositi, tutti però affascinati da quel gioco di para-archeologia che sicuramente contribuì a modificare il nostro modo di pensare i rapporti tra passato e presente, e il nostro proprio rapporto con il concetto stesso di museo.

Testo pubblicato in: Ingannare il tempo. Bruno Munari archeologo 
Edizioni Corraini, 2007 
Catalogo della mostra al Museo Civico Archeologico del Comune di Bologna.