11.5.14

Con mio padre e un proiettore


All'inizio degli anni '50 mio padre ricevette in esame un prototipo di uno dei primi proiettori per diapositive portatili ad uso amatoriale.  Era a sviluppo verticale, come le vecchie lanterne magiche o i proiettori cinematografici: un semplice parallelepipedo rettangolo di lamiera laccata grigia, di circa 10x30x40 cm.  Nella sua dimensione più lunga era diviso verticalmente in due scomparti: quello posteriore era chiuso e conteneva la lampada con le sue lenti focalizzanti; quello anteriore aveva invece sulle due facce laterali opposte degli sportelli che, una volta aperti, permettevano l'accesso ad un vano che comprendeva sul montante anteriore il supporto dell'obiettivo, mentre su quello posteriore – che faceva da divisorio tra i due scomparti – in corrispondenza del retro dell'obiettivo vi era una guida scorrevole dove poter infilare e far scorrere il telaio per la diapositiva.  Il modello definitivo, fabbricato in Italia, fu poi commercializzato dalla Ilford nel 1957 sotto il nome "Sportsman" (foto qui sotto).





Il telaio delle diapositive era composto da una cornicetta quadrata smontabile che manteneva due piccoli vetri trasparenti tra i quali andava inserito il fotogramma da proiettare.  Ogni immagine proiettata richiedeva quindi almeno quattro o cinque minuti di delicate manipolazioni per prepararla: smontaggio del telaio; taglio del fotogramma dalla bobina del film; inserimento dello stesso tra i due vetrini, prealabilmente ben puliti dai granelli di polvere e dalle impronte delle dita; rimontaggio del telaio e suo posizionamento nel supporto scorrevole da collocare sulla rotaia.

Ricordo che non appena mio padre portò a casa quell'apparecchio, passammo subito alcune giornate a proiettare tutte le diapositive che avevamo a disposizione: foto di famiglia, ricordi di viaggi, foto d'essai – che mio padre si divertiva a scattare con la sua piccola macchina fotografica Robot, una delle primissime fotocamere ad avanzamento automatico da fotoreporter, che usava la pellicola cinematografica da 35mm (foto qui sotto).



Interessato anch'io, già da allora, di fotografia, ricordo che l'uso della pellicola cinematografica da 35mm, invece di quella da 6x6cm delle ingombranti Rolleiflex della Franke and Heidecke di Braunschweig, costituì a quell'epoca un'autentica rivoluzione, della quale leggevo con curiosità nelle riviste specializzate e che naturalmente fu oggetto di vivaci polemiche nel mondo della fotografia professionale.  Fu d'altronde un evento che trovò impreparata l'industria stessa della pellicola, che non aveva ancora pensato di mettere in commercio delle confezioni di pellicola 35mm adatte a questo nuovo uso fotografico e non cinematografico.  Ricordo infatti che per caricare la pellicola da 35mm nella piccola Robot bisognava prima tagliarne un pezzo della lunghezza giusta da una bobina cinematografica, e poi arrotolarlo nello speciale caricatore fornito dalla Robot – il tutto naturalmente ben rinchiusi nella luce rossa della camera oscura!   E poi, dopo, bisognava anche trovare un fotografo sufficientemente bene attrezzato – e ben disposto – che fosse d'accordo di sviluppare quegli strani caricatori...  A ripensarci oggi, nell'era della fotografia digitale, sembra proprio di parlare di secoli addietro, allorché sono trascorse soltanto tre generazioni!


Ma ritorniamo a quelle giornate di grande eccitazione per la scoperta di quel nuovo apparecchio.  Dopo aver proiettato tutte le diapositive disponibili, provammo anche a proiettare i negativi di vecchie fotografie in bianco e nero – magari un po' ingialliti, e anche di formato diverso: bastava ritagliarli affinché entrassero nel telaio.  Abituati fino allora ad osservare un negativo soltanto nelle sue dimensioni originali, o al massimo con una lente di ingrandimento, faceva una certa impressione vederli così grandi, proiettati sulla parete bianca dello studio.  Ricordo che commentammo insieme, un po' sorpresi, l'infinità di gradazioni di grigio che queste grandi immagini ci permettevano di scoprire, dando così vita e rilievo a delle zone d'ombra che fino allora sembravano solo dei piatti fondali.


Poi, esaurite tutte le foto, mio padre disse: e adesso, cosa si potrebbe proiettare d'altro?  Che cosa d'altro si sarebbe potuto mettere tra i due vetrini del telaietto della diapositiva da proiettare, che non fosse un fotogramma di una pellicola?  Ci mettemmo allora con grande entusiasmo alla ricerca di tutto ciò che poteva prestarsi a questo scopo: un pezzetto di cellophane colorato, una cartina trasparente di caramella, un pezzettino di sottile buccia di cipolla, un brandello di sacchetto di plastica, una goccia di colla...  Ecco che sulla parete dello studio cominciarono così ad apparire grandi forme stupefacenti e colori inaspettati – a dire il vero ben più interessanti delle fotografie di prima.  Pian piano con mio padre imparavo a riconoscere i materiali che meglio si prestavano a questo gioco, e ad anticipare l'effetto che potevano produrre una volta proiettati.  Fu in quel momento che compresi appieno la differenza tra un pigmento colorato illuminato di luce riflessa e lo stesso colore prodotto da un fascio di luce colorata: la differenza cioè tra sintesi sottrattiva e sintesi additiva – della quale avevo già sentito parlare a scuola senza però averne preso coscienza in un modo così vivido e immediato.


Poi provammo ad intervenire su quei materiali in tanti modi diversi: scoprimmo così che il sottile film trasparente incolore dei sacchetti di plastica, una volta tirato con forza e strappato, perdeva lungo lo strappo la propria trasparenza per acquisire delle leggere sfumature iridescenti – come quelle che fa apparire un sottile velo d'olio che galleggia sull'acqua; oppure che un pezzetto di cellophane colorato, quando veniva graffiato, stirato o bruciacchiato, poteva rivelare delle sfumature inattese di colore; oppure ancora che una piccola goccia di colla trasparente poteva assumere tante forme diverse a seconda di come veniva pressata tra i due vetrini del telaio; e così via, in un gioco di sperimentazioni senza fine, interrotto ogni tanto dai richiami innervositi di mia madre che ci ricordava l'ora del pranzo o della cena.


Così, da macchina “banale” e prevedibile che era, ecco che quel semplice proiettore era diventato uno strumento di affascinante ricerca visiva.  E non solo statica.  Fin da bambino mi divertivo a collezionare delle piccole bottiglie di vetro, come quelle dei campioni di profumi, e mi ricordai in quel momento che fra le bottigliette della mia collezione ve n'era una rettangolare piccola, larga e piuttosto piatta: la riempii d'acqua e riuscii a disporla nel proiettore, appoggiata sulla guida per i telai delle diapositive; poi, con un contagoccie preso dall'armadietto delle medicine di mia madre, gli feci cadere dentro una piccola goccia di inchiostro di china nero.  Siccome il proiettore rovesciava di 180° l'immagine originale quando la proiettava, ecco allora apparire sul muro bianco la forma un po' inquietante di un enorme nuvola nera che saliva lentamente dal basso, come il caratteristico “fungo” di una bomba atomica!  Ecco che quel proiettore “statico” diventava un nuovo tipo di proiettore “dinamico”, capace di far apparire delle fantastiche forme in movimento... avevo inventato un nuovo tipo di cinematografia!


Quell'entusiasmante gioco di esplorazione durò parecchie settimane, durante le quali sperimentammo tutti i materiali disponibili e tutti gli effetti possibili.  Ma il momento forse più importante fu quando ci venne in mente di esplorare in che modo quei materiali proiettabili avrebbero potuto reagire all'applicazione di filtri polarizzanti.  Erano trascorsi una ventina d'anni da quando Edwin Land aveva inventato i filtri Polaroid, ma solo da poco tempo si potevano trovare in commercio, anche se a caro prezzo, e non soltanto come occhiali da sole ma anche sotto forma di fogli polivinilici flessibili di diverso spessore, che era possibile ritagliare nelle forme volute.  Ovviamente mio padre, sempre attentissimo ai più recenti sviluppi tecnologici, se ne era già procurato alcuni pezzi: provammo così a sistemare, appena dietro la rotaia sulla quale venivano inseriti i telai da proiettare, un primo filtro polarizzante; il secondo filtro lo tenevamo invece in mano, in modo da poterlo muovere e ruotare liberamente davanti all'obbiettivo del proiettore, per intercettarne il fascio di luce.  Ricordo benissimo l'emozione che provammo nel veder nascere così davanti ai nostri occhi, e trasformarsi in innumerevoli gradazioni che si sviluppavano lungo tutta la gamma dello spettro, dei magnifici colori di una brillantezza straordinaria.  La meraviglia fu ancor più grande quando scoprimmo che anche un pezzetto di cellophane incolore, ripiegato più volte su sé stesso, quando veniva attraversato dalla luce polarizzata faceva apparire una miriade di colori, ognuno dei quali poi si traformava gradualmente nel suo complementare se si ruotava il filtro posto davanti l'obbiettivo.  Anche questa volta quel proiettore diventava “dinamico”, capace di creare delle forme animate e mutevoli che la cinematografia di allora era incapace di far apparire.


Fu così che nacquero quelle che poi furono chiamate le “Proiezioni dirette”, che in una tiepida serata dell'autunno 1953 mio padre ed io presentammo, per la prima volta in pubblico, in un'affollatissima sala della Galleria Studio B24 in via Borgonuovo a Milano.


Mi piace ricordare questo episodio, perché trovo che sia particolarmente esemplare del modo di lavorare di mio padre.  Tutta la sua produzione artistica, così originale, eterogenea e diversificata – dalle opere astratte alla grafica, dalle sculture alle costruzioni polimateriche, dal design alla didattica – è stata in effetti sempre animata e sospinta da un'unica, semplice ma costante domanda: come si potrebbe fare diversamente?   È questa stessa domanda che mio padre aveva l'abitudine di chiedermi, quando, bambino, gli mostravo tutto fiero un disegno o una costruzione che avevo appena terminato, oppure quando insieme a lui studiavamo un nuovo oggetto o una nuova tecnologia: “...bello, bene... – diceva – ma come si potrebbe fare altrimenti?  In quanti altri modi diversi si potrebbe realizzare? Cosa d'altro si potrebbe fare con questo?


Sono domande come queste che ci obbligano ad uscire dalle nostre confortanti abitudini di pensiero, dai nostri stereotipi culturali, per andare ad avventurarci in quel meraviglioso e quasi infinito universo di alternative possibili, aprendoci al fascino della scoperta, al coraggio dell'innovazione, al desiderio dell'eccellenza.  Sono domande di questo tipo che certamente hanno animato e tutt'ora animano i grandi scienziati, gli inventori geniali, gli imprenditori di successo.  Ogni grande invenzione, nel campo della scienza, della tecnologia o dell'arte, è nata dalla mente di chi non si è accontentato di accettare le cose così come sono, ma si è invece chiesto: come si potrebbe fare diversamente?



Come ho spiegato più in dettaglio in un mio recente scritto [“Morfogenesi e conoscenza”. In P.L. Amietta, D. Fabbri, A. Munari, P. Trupia: I destini cresciuti. Quattro percorsi nell'apprendere adulto. Milano: FrancoAngeli, 2011, 219-301.], è ancora quella stessa domanda – poi riveduta ed ampliata, alla luce dei miei studi sulla genesi dei processi cognitivi – che mi ha guidato e tutt'ora guida le mie ricerche e le mie riflessioni: perché mai, tra le innumerevoli forme che avrebbe potuto prendere, una cosa – sia essa un oggetto, un essere vivente, un comportamento, un pensiero... – ha assunto proprio quella forma e non un'altra

Se poi rivolgiamo questa domanda verso noi stessi, con lo sguardo dello psicologo piuttosto che con quello dell'artista o del biologo, potremmo allora chiederci: perché siamo quello che siamo, allorché avremmo potuto essere differenti

Foto proiettore Ilford tratta dal sito http://www.photomemorabilia.co.uk/Ilford/Slide_Projectors.html  (accesso 18.04.2012).
Foto macchina Robot tratta dal sito http://corsopolaris.net/supercameras/robot/robot2.html (accesso 18.04.2012).


Testo pubblicato in inglese sotto il titolo: "How could it be done differently?" nel catalogo della mostra Bruno Munari: My Futurist Past tenutasi dal 19.09 al 23.12.2012 a Londra presso la Estorick Collection of Modern Italian Art, a cura di M.Hajek & L. Zaffarano. 



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