17.10.07

Con mio padre nel suo studio


Da quand'ero un bambino piccolo fino a quando lasciai la casa di Milano per andare a studiare a Ginevra, e poi in molte altre occasioni ancora, innumerevoli sono state le ore che ho passato accanto a mio padre nel suo studio, a guardarlo lavorare. Sono sempre stato affascinato dalla decisa precisione dei suoi gesti, quando tracciava la prima linea di una futura composizione sul foglio ancora bianco, quando tagliava un pezzo di carta perfettamente in squadra, con quelle sue lunghe forbici che ancora conservo, o quando incollava subito al posto giusto, senza doverlo riposizionare, un ritaglio colorato su di una composizione già elaborata. Non l'ho mai visto ripercorrere con la matita una linea già tracciata, o usare la gomma da cancellare – se non per creare una sfumatura o un punto di luce. E quando le sue agili dita piegavano un filo di ferro, annodavano un filo di nylon o strappavano una stoffa o un cartoncino, non vi era mai traccia di violenza nei suoi gesti, che invece di imporre con la forza la loro volontà cercavano piuttosto di negoziare il loro progetto d'azione con i vincoli e le resistenze che quei materiali esprimevano. Non era un semplice agire, ma una sorta di rispettoso dialogo silente, durante il quale l'intelligenza del gesto interrogava la storia dell'oggetto sul quale stava operando, quasi per ripercorrere il lungo cammino durante il quale l'oggetto aveva acquisito quelle caratteristiche peculiari che ora esprimeva e con le quali bisognava trovare un accordo.
Non passava giorno, quasi, che dai suoi gesti non imparassi qualcosa di nuovo: come sentire con i polpastrelli la venatura di un foglio per sapere da quale parte è meglio piegarlo; come schiacciare con l'unghia del pollice la piegatura della carta affinché risulti ben netta e marcata; come lisciare con il dorso delle dita il pezzo di carta appena incollato e ricoperto da un altro foglio, muovendosi dal centro verso i bordi per evitare la formazione di bolle o pieghe; come tenere con la mano sinistra il foglio di carta che ci si accinge a tagliare, rendendolo solidale della lama inferiore delle forbici lunghe in modo da guidare con maggior esattezza il taglio; come iniziare, con la giusta pressione delle dita, uno strappo affinché risulti ben netto, e poi guidarne con una delicata torsione dei polsi la traiettoria; e molti, molti altri gesti ancora, che a tutt'oggi fanno parte della mia quotidiana manualità.
Noterete che non ho menzionato pennelli, tavolozze, tubetti di colore, vasetti, solventi… come ci si potrebbe aspettare parlando di un artista. Di fatto, nello studio di mio padre questo genere di oggetti fece soltanto una fugace apparizione agli inizi della sua esuberante e multiforme produzione, lasciando nella mia memoria solo una debole, antica traccia. Ho soltanto un vago ricordo di qualche vasetto colorato che odorava stranamente, di alcuni pennelli umidi e di altri un po' più secchi, che occupavano un piccolo angolo del suo tavolo di lavoro quando questo era ancora nel soggiorno-studio-salotto del nostro appartamento al quinto piano. Erano ancora gli anni quaranta; poi, man mano che la sua produzione si diversificava, pennelli e colori lasciarono gradatamente il posto a carte colorate, pennarelli, forbici, nastri adesivi, taglierini, fustelle, corde, plastiche, tessuti… e nello studio degli anni sessanta bisognava andarli a cercare in fondo ad un cassetto. Ricordo che rimasi molto colpito quando un giorno mi disse, vedendomi disegnare un paesaggio: "perché ti affatichi a disegnare il cielo con una matita blu su un foglio bianco? Prendi un foglio azzurro, che è già il cielo, e poi se vuoi disegna le nuvole con la matita bianca!". Certamente: l'attrezzo giusto, con il gesto giusto, al momento giusto, per lo scopo giusto… Ma come si fa a sapere quando si è raggiunto il giusto?
Ne parlammo più volte, in diverse occasioni e in tempi diversi, di questo che per me è sempre stato uno degli interrogativi più affascinanti, perché porta inevitabilmente verso la comprensione della maestria, verso l'esplicitazione e quindi la valorizzazione delle competenze – che oggi è l'essenza stessa del mio mestiere di psicologo ed epistemologo. Ricordo la volta in cui, nella calma del suo studio privo di telefono – e di telefonino, che allora nessuno dei due possedeva – gli raccontai di come, nel lungo processo di costruzione della conoscenza, l'azione concreta costituisca il momento privilegiato in cui prendono forma simultaneamente il soggetto che conosce, l'oggetto che è conosciuto e gli strumenti stessi di questa conoscenza, e di quanto importante ed interessante sia allora riconoscere alla gestualità, sia essa voluta e coscientemente elaborata oppure anche spontanea ed automatizzata, lo statuto di atto intelligente. Ricordo che l'idea di una intelligenza del gesto – idea che oggi costituisce uno dei capisaldi del mio lavoro – gli piacque molto, in particolare perché illuminava con una luce nuova i laboratori per bambini a cui da un certo tempo ormai consacrava molti dei suoi pensieri. In fondo, e malgrado la loro diversità, non era proprio l'intelligenza del gesto che quei laboratori cercavano di promuovere, per poter poi meglio cogliere i segreti della creazione artistica? Ed in fin dei conti, non era dell'intelligenza dei suoi gesti, che testimoniavano tutte quelle opere, quelle prove, quei prototipi disparati che riempivano ogni angolo del suo studio?
Ma un gesto, è sempre "intelligente"? Direi di sì, ma ovviamente con gradazioni diverse: vi sono gesti più intelligenti di altri, così come vi sono persone più intelligenti di altre. Il gesto professionale dell'apprendista è certamente meno intelligente del gesto professionale del maestro d'arte. E così come ogni forma di apprendimento, la ricerca della maestria significa esercitare l'intelligenza del gesto affinché raggiunga i livelli più elevati. Una volta chiesi a mio padre come facesse a distinguere con così grande sicurezza un'opera d'arte da una che non lo era; mi rispose deciso: "l'opera d'arte è tale quando non lascia trasparire la fatica del gesto che l'ha fatta". Il sommo della maestria sarebbe allora quando questa non si lascia più vedere? Il sommo dell'intelligenza del gesto sarebbe allora quando questa scompare? Forse è proprio così, anche per l'intelligenza tout-court: il massimo dell'intelligenza è quando non dà mostra di sè. E' una cosa che ho cominciato ad imparare fin da bambino, quando passavo molte ore accanto a mio padre nel suo studio, a guardarlo lavorare.

Testo pubblicato in: Nello studio con Munari 
Corraini Editore, 2007. 
Con un testo di Alberto Munari, Con mio padre, nel suo studio ed un cortometraggio di Andrea Piccardo in DVD.

Con mio padre a Tokyo


Nel 1968 accompagnai mio padre in quello che fu il suo primo viaggio in Giappone, in occasione di un grande convegno internazionale sul design che si teneva in parte a Tokyo e in parte a Kyoto. Per mio padre quel viaggio fu il primo di una lunga serie, che lo vide interagire per molti anni ancora con numerose istituzioni giapponesi dedicate all'arte, al design e all'educazione creativa dei bambini, dove ha lasciato le profonde e numerose tracce che ancor oggi stiamo onorando. Anche per me fu il primo di una lunga serie di viaggi, nel corso dei quali ho potuto approfondire le affascinanti culture che animano l'estremo oriente, dallo Zen giapponese al Grande Veicolo del Sud-Est asiatico, dalla tradizione Vedica indiana alle millenarie saggezze cinesi.
Quel viaggio fu un'esperienza indimenticabile di profonda condivisione di mille emozioni, grandi e piccole, suscitate dall'incontro reale con quel mondo sino allora soltanto immaginato da lontano. L'emozione di sentirsi così piccoli in una megalopoli che si sviluppa su più piani sovrapposti, attraversati da fiumi veloci di milioni di macchine colorate, ma puntuata qua e là dai tetti rossi e dorati degli antichi templi. La sorpresa di scoprirsi improvvisamente analfabeti, di fronte a tutte quelle scritture per noi indecifrabili, che rendevano vano ogni tentativo di affidarsi alla metropolitana o ad altro mezzo pubblico. Lo stupore di scoprire che i segni e i segnali abituali dell'arredo urbano, apparantemente simili a quelli delle nostre città, acquisivano inaspettatamente altri significati, come ad esempio i numeri civici che seguono l'ordine di costruzione degli edifici e non l'ordine di collocazione nella strada, o ancora il semaforo pedonale che dà il via a tutte le direzioni contemporaneamente. La grande emozione di trovarsi nel tempio di Roanji, davanti a quel giardino tante volte visto in fotografia, e che ora ci appariva nelle sue reali dimensioni, sorprendentemente piccole. O ancora il piacere di camminare scalzi sui pavimenti di legno lucidissimo e caldo dei sacri templi, di riconoscere le infinite nuances di tanti incensi profumati, di assaporare l'odore di muschio delle case tradizionali di Kyoto. Ma soprattutto, per mio padre, l'emozione di scoprire in un mondo così lontano, così tante e profonde affinità con i suoi pensieri e le sue ricerche.

Con mio padre a Harvard


Ricordo ancora il piacere che provavo a tenere fra le dita quel pezzetto di gesso sottile e perfettamente cilindrico come un pastello a cera. Di cerato però aveva soltanto la superficie esterna, che risultava così perfettamente liscia e setosa. Il gesso bianco, all'interno, era invece puro solfato di calcio ma straordinariamente fine e compatto, e lasciava una traccia perfetta sul linoleum verde della grande lavagna che occupava quasi tutta la parete nord dello studio di mio padre. Nella grande stanza a pian terreno, che la Harvard University gli aveva attribuito quando era stato invitato a tenere un corso di un semestre al Carpenter Center for Visual Arts, il sole primaverile che entrava dall'alta vetrata a piccoli riquadri si divertiva ad intrecciare pennellate di luce e piccoli arcobaleni con i segni bianchi lasciati dal mio gessetto.
Stavamo costruendo insieme quello schema che sarebbe poi stato pubblicato a pagina 85 di Design e Comunicazione Visiva – stampato la prima volta da Laterza nel 1968 e tutt'oggi in ristampa – allo scopo di analizzare le possibili modalità di percezione di un messaggio visivo da parte del suo fruitore. Era la primavera 1967, da tre anni ormai avevo conseguito la laurea in psicologia sperimentale all'Università di Ginevra e da più o meno lo stesso periodo stavo lavorando con Jean Piaget ad un programma di ricerca sulla percezione visiva, combinando nell'analisi statistica dei dati raccolti il modello della Signal Detection Theory di Green & Swets con quello costruttivista proposto da Piaget. Ero quindi immerso appieno in quella problematica, quando mio padre mi fece parte delle sue riflessioni sul come avrebbe dovuto essere costruito un messaggio visivo al fine di assicurarne la massima efficacia.
Ricordo il suo attento interesse, quando gli spiegavo che in realtà il luogo di elaborazione del significato di un messaggio si situa sempre presso chi lo riceve, non presso chi lo invia; e che le caratteristiche intrinseche del messaggio, così come del supporto che lo veicola, determinano di fatto solo una piccola parte dell'interpetazione che ne dà chi lo riceve. Questi, poi, è anche luogo di intersezione e di mediazione tra molteplici processi di diversa natura e situati a diversi livelli di realtà – neurofisiologica, sensoriale, operativa, culturale, ecc. – di modo che il grado di prevedibilità della sua risposta è sempre ben lontano dalla certezza.
Mi accorsi che quell'approccio gli risultava nuovo e inatteso – come d'altronde lo era stato per me, sette anni prima, all'inizio dei miei studi. Eravamo infatti entrambi cresciuti nella convinzione che il paradigma della razionalità dovesse sempre, in ultima analisi, sostenere e guidare il funzionamento della natura, delle cose e degli uomini. Mio padre poi era convinto che uno dei compiti fondamentali che avesse da svolgere, in quanto artista e soprattutto designer, fosse appunto quello di svelare e rendere accessibile a tutti la razionalità soggiacente ad ogni manifestazione della realtà.
E forse era proprio per questo che trovava così affascinante, in particolare, il fatto che i modelli di interpretazione proposti dalla Teoria dell'Informazione e dalla Signal Detection Theory – dei quali gli stavo raccontando la storia, iniziata nei primi anni '40 in quell'ambiente ingegneristico dove si sperimentavano i prototipi delle prime macchine cosiddette "intelligenti" – si prestassero così bene a descrivere anche il comportamento di un essere umano.
Mi resi conto che era proprio l'analogia con la macchina che permetteva a mio padre di comprendere meglio i processi che stavamo discutendo e di partecipare più attivamente all'elaborazione di quello schema. L'analogia con la macchina fotografica è infatti molto evidente nella rappresentazione che lo schema propone dei diversi "filtri" (sensoriali, operativi, culturali) attraverso i quali il messaggio è costretto a passare e dai quali sarà inevitabilmente modificato – proprio come, nella pratica della fotografia che mio padre ben conosceva, un filtro rosso o verde modifica sensibilmente il contrasto e la definizione dell'immagine quando viene riprodotta in bianco e nero. E ancora, quella fonte di perturbazioni aleatorie che le teorie dell'informazione chiamano "rumore" prese allora la forma, nel disegno dello schema, di una specie di pulviscolo contro il quale vanno a cozzare le traiettorie iniziali di alcuni messaggi, che vengono così deviati o dispersi, proprio come il pulviscolo galleggiante nell'aria disturba e devia il fascio di luce emesso da un proiettore.
E' anche particolarmente interessante notare come in quello schema figurava una sola, piccola e timida freccia di retroazione, non meglio qualificata se non dall'annotazione che è "interna" al soggetto ricevente. Lo schema infatti non indica la funzione di quella retroazione, né la necessità della sua presenza. Anche nel testo che commenta lo schema, quella freccia viene descritta – peraltro non esplicitamente – come una "risposta interna", che potrebbe anche essere di natura diversa da quella del messaggio ricevuto, e non come una retroazione che agisce, modificandola, sull'interpretazione del messaggio stesso o di analoghi messaggi successivi.
Ricordo molto bene le lunghe conversazioni che ebbi con mio padre, nel suo studio del Carpenter Center e poi nei salotti ovattati del Faculty Club, a proposito di quella piccola timida freccina, che io avrei forse già voluto più grande e meglio definita.
Mi rendevo però conto che per lui, che non aveva ancora avuto, come invece io ebbi, l'occasione e la fortuna di confrontarsi con quella profonda rivoluzione di pensiero provocata dall'avvento della Teoria Generale dei Sistemi, la presenza di un dispositivo interno al soggetto, la cui funzione è di modificarne costantemente le caratteristiche, era difficilmente comprensibile.
Ma la metafora della macchina ci venne ancora una volta in aiuto. Già da un po' di anni infatti erano comparse, non solo nei grandi padiglioni della Olivetti – dove mio padre ebbe l'occasione di osservare le prime "macchine a controllo numerico" – ma anche nella nostra vita quotidiana, delle apparecchiature capaci di "autocorreggersi" e di mantenere nel tempo un'impostazione predefinita, malgrado l'intervento di perturbazioni esterne.
Oggigiorno, fra i nostri elettrodomestici, numerosi sono i dispositivi a termostato – scaldabagno, forno, frigorifero, ecc. – tant'è che non vi prestiamo più alcuna attenzione; bisogna ricordarsi però che per la generazione di mio padre l'avvento del frigorifero costituì una profonda rivoluzione, sia pratica che concettuale, dopo decenni e decenni di fatiche per trasportare pesanti blocchi di ghiaccio con i quali rifornire ogni giorno la "ghiacciaia", e per svuotare poi i secchi dell'acqua che perdeva.
Non fu dunque particolarmente difficile spiegargli il concetto di feed-back negativo: di quel dispositivo di retroazione cioè il cui scopo è di correggere una devianza, uno squilibrio, per riportare il funzionamento dell'apparecchio all'interno di una norma prestabilita – proprio come fa il termostato. Ma era solo questo il significato di quella piccola freccina ricurva all'indietro? Di ristabilire un equilibrio interno, che la ricezione del messaggio avrebbe potuto perturbare? Il soggetto ricevente rimarrebbe dunque sempre immutato, una volta ristabilito l'equilibrio che era stato momentaneamente perturbato dal messaggio ricevuto? Come spiegare il fatto che un messaggio possa a volte indurre un cambiamento permanente nel soggetto che lo riceve? Come spiegare cioè il valore educativo che in certe circostanze anche un messaggio visivo potrebbe avere?
E' qui che incontrammo le maggiori difficoltà. Perché se la metafora della macchina può essere di grande aiuto per spiegare la retroazione negativa, essa diventa addirittura un ostacolo per capire il feed-back positivo. La retroazione positiva è infatti quella che non corregge, ma amplifica una deviazione: ora, nel mondo delle macchine un tal dispositivo porta inevitabilmente alla distruzione, alla saturazione o comunque al bloccaggio della macchina – come ad esempio quando un microfono troppo vicino al suo altoparlante provoca quel fastidioso fischio che satura e rende inservibile l'amplificazione.
Per capire il ruolo non solo utile, ma indispensabile, della retroazione positiva bisogna abbandonare il mondo delle macchine ed entrare in quello del vivente, della biologia. Il feed-back positivo è infatti un dispositivo assolutamente indispensabile ovunque vi sia un processo di mutazione e di crescita: non di una crescita per accumulazione però, bensì di una crescita per cambiamento. E' un dispositivo di questo genere, ad esempio, che all'interno della cellula coglie quel minuscolo fremito nascente e lo amplifica a valanga fino a provocare la scissione della cellula in due nuovi individui.
Ogni essere vivente è un sistema complesso dove innumerevoli dispositivi di retroazione positiva interagiscono con altrettanti dispositivi di retroazione negativa, in un gioco estremamente delicato di equilibri e di squilibri grazie al quale il soggetto vive, si trasforma ed evolve pur conservando la propria identità.
La difficoltà, qui, consiste nell'abbandonare l'ideale vittoriano di un progresso inteso come crescita continua e regolare, guidata da princìpi di fondo immutabili, e nell'accettare invece una concezione della vita intesa come un processo instabile, la cui direzione e le cui caratteristiche possono essere ridefinite ad ogni istante, quindi intaccato da un'irriducibile imprevedibilità locale, anche se globalmente vi si può riconoscere una certa coerenza.
Anche per un uomo aperto alla novità e curioso di ogni punto di vista alternativo, ma pur sempre partecipe del sogno novecentesco di un progresso dovuto alla rinascita della ragione, come era mio padre, non era facile accettare l'idea di un mondo ove il disordine sembra essere la regola, e l'ordine l'eccezzione.
Design e Comunicazione Visiva ha superato la decima ristampa nella sua veste attuale, ed è tutt'ora utilizzato come manuale di riferimento in moltissime scuole di design in Italia e nel mondo – segno evidente della sua perenne freschezza e costante attualità.
Ma riesaminando con i miei occhi di oggi quello schema, mi rendo conto di quanto lontani siano in me quei giorni della primavera 1967 – non tanto dal punto di vista semplicemente cronologico, quanto soprattutto dal punto di vista concettuale. Oggi non riesco più a pensare ad un "emittente" indipendentemente da un "ricevente": non vi è nessun emittente, se non vi è un soggetto che lo riconosca come tale. Né trovo abbia senso parlare di "messaggio", indipendentemente dall'istanza che gli riconosca questo statuto. Non soltanto The medium is the massage – come diceva Marshall McLuhan nel suo libro omonimo, pubblicato proprio in quell'anno 1967 – ma il messaggio è il soggetto – come diremmo noi oggi.
Dopo gli studi pionieristici di Piaget, le "macchine non banali" di Heinz von Foerster e le tesi autopoietiche di Humberto Maturana e Francisco Varela, la conoscenza non ci appare più come la risposta ad un messaggio, né come la riproduzione di una "realtà" ad essa esterna: la conoscenza ci appare invece come la ri-produzione continua e a tutti i livelli di sè stessa: la produzione autonoma delle proprie forme di organizzazione.
In altre parole, oggi quella freccina diventerebbe così grande da inglobare lo schema intero.
Ma allora eravamo nel 1967: la rivoluzione culturale del maggio '68 francese non aveva ancora risvegliato le coscienze, e la "scoperta" della complessità avrebbe sconvolto le scienze della natura e dell'uomo soltanto una quindicina di anni dopo. Quella freccina, allora, rimase così, piccola e discreta, fra le pennellate di luce e i piccoli arcobaleni del sole primaverile del Massachusetts, ma la sua presenza già annunciava l'avvento di una nuova visione del conoscere.

Con mio padre a Panarea


Andavamo quasi ogni giorno fino a Capo Milazzese, lungo il sentiero assolato che passava davanti alla trattoria Cincotta, per visitare i resti del villaggio preistorico, e cercare tra le pietre qualche piccolo frammento che ci potesse raccontare la vita di chi aveva vissuto 2'500 anni addietro in quelle capanne a pianta perfettamente circolare. Anche se a quell'epoca ero un ragazzino, avevo già avuto la possibilità di ammirare reperti e manufatti antichi in diversi musei; mai però avevo avuto prima di allora l'occasione di esplorare un sito archeologico vero e proprio, e per di più così facilmente accessibile, senza recinzioni, senza cartelli, senza guardiani: eravamo quasi sempre soli, mio padre Bruno ed io, su quel piccolo promontorio ancora temperato dalla brezza del mattino. Soli proprio come due veri esploratori, che avessero appena scoperto per primi le vestigia misteriose di un lontano passato. Ogni pietruzza, ogni coccio, ogni scheggia di ossidiana poteva essere un prezioso reperto – oppure un sasso qualsiasi. Cercavamo allora di individuare se qualcosa, un graffio, una linea di frattura, un intaglio, un'appendice di forma strana, poteva suggerire che il frammento che stavamo osservando avesse potuto appartenere a qualcosa di più grande, e tentavamo allora di immaginare l'aspetto che avrebbe avuto l'oggetto completo.
Eravamo così divertiti da questo giocare all'archeologo dilettante, che ben presto la preoccupazione di sapere se veramente si fosse trattato di un reperto prezioso oppure di un frammento casuale divenne secondaria, a fronte del piacere di immaginare oggetti e forme strane a cui avrebbe potuto comunque appartenere. Così, come spesso succede quando si impara un nuovo modo di pensare e di vedere, anche gli oggetti più comuni cominciarono improvvisamente ad acquisire nuovi significati e a suscitare rinnovate curiosità. E ciò non soltanto sul sito del villaggio preistorico, ma ovunque: ecco allora che il coperchio tondo in ferro della cisterna d'acqua piovana della nostra casa in località Ditella, poteva essere visto come un potenziale reperto... magari un frammento della parte centrale dello scudo da combattimento di un antico guerriero? E quel pezzo di legno cotto dal sole – di epoca presumibilmente più recente, visto che era di legno – trovato sotto il mandorlo del giardino, avrebbe potuto essere un frammento della gamba di legno di un misterioso pirata caraibico smarritosi nel mediterraneo? Eccoci allora alla ricerca di un grande foglio di carta bianca, meglio ancora se un po' ingiallita, su cui incollare quel pezzo di legno e disegnarci intorno l'intera gamba di legno, e poi anche tutto il pirata con tanto di benda sull'occhio sinistro (l'occhio di un pirata non può che essere sinistro!). E quell'insieme di macchie di salnitro che avevano fiorito sulla parete nord della camera da letto, così ben disposte l'una accanto all'altra ma a diverse distanze, poteva diventare la mappa di un possibile arcipelago eoliano scomparso da diversi milioni di anni? Bastò allora incollare a fianco di ogni macchia un piccolo cartellino con un nome inventato, per trasformare d'incanto quell'insieme di macchie in un'antica mappa geografica. Quasi ogni oggetto di quella semplice casa bianca e azzurra, quasi ogni pietra o radice secca del giardino del mandorlo, si prestò a questo appassionante gioco, tant'è che ben presto le tre stanze e la terrazza assomigliarono sempre di più ad un museo archeologico che ad una casa di vacanza.
Una volta compiuta, quasi inconsapevolmente, quest'imprevista mutazione, venne allora naturale l'idea di invitare all'inaugurazione del Museo Immaginario delle Isole Eolie il gruppo di amici che ci avevano accompagnato alla scoperta di quell'isola stupenda che allora, nel 1955, era ancora un angolo incontaminato di paradiso mediterraneo. Qualche fiasco di malvasia e un po' di mandorle del giardino bastarono per quel vernissage che verso il tramonto divenne assai affollato, di amici cari come Fulvio Bianconi, Piero Di Blasi, e altri ancora, così come di vicini stupiti e di estranei incuriositi, tutti però affascinati da quel gioco di para-archeologia che sicuramente contribuì a modificare il nostro modo di pensare i rapporti tra passato e presente, e il nostro proprio rapporto con il concetto stesso di museo.

Testo pubblicato in: Ingannare il tempo. Bruno Munari archeologo 
Edizioni Corraini, 2007 
Catalogo della mostra al Museo Civico Archeologico del Comune di Bologna.