17.10.07

Con mio padre nel suo studio


Da quand'ero un bambino piccolo fino a quando lasciai la casa di Milano per andare a studiare a Ginevra, e poi in molte altre occasioni ancora, innumerevoli sono state le ore che ho passato accanto a mio padre nel suo studio, a guardarlo lavorare. Sono sempre stato affascinato dalla decisa precisione dei suoi gesti, quando tracciava la prima linea di una futura composizione sul foglio ancora bianco, quando tagliava un pezzo di carta perfettamente in squadra, con quelle sue lunghe forbici che ancora conservo, o quando incollava subito al posto giusto, senza doverlo riposizionare, un ritaglio colorato su di una composizione già elaborata. Non l'ho mai visto ripercorrere con la matita una linea già tracciata, o usare la gomma da cancellare – se non per creare una sfumatura o un punto di luce. E quando le sue agili dita piegavano un filo di ferro, annodavano un filo di nylon o strappavano una stoffa o un cartoncino, non vi era mai traccia di violenza nei suoi gesti, che invece di imporre con la forza la loro volontà cercavano piuttosto di negoziare il loro progetto d'azione con i vincoli e le resistenze che quei materiali esprimevano. Non era un semplice agire, ma una sorta di rispettoso dialogo silente, durante il quale l'intelligenza del gesto interrogava la storia dell'oggetto sul quale stava operando, quasi per ripercorrere il lungo cammino durante il quale l'oggetto aveva acquisito quelle caratteristiche peculiari che ora esprimeva e con le quali bisognava trovare un accordo.
Non passava giorno, quasi, che dai suoi gesti non imparassi qualcosa di nuovo: come sentire con i polpastrelli la venatura di un foglio per sapere da quale parte è meglio piegarlo; come schiacciare con l'unghia del pollice la piegatura della carta affinché risulti ben netta e marcata; come lisciare con il dorso delle dita il pezzo di carta appena incollato e ricoperto da un altro foglio, muovendosi dal centro verso i bordi per evitare la formazione di bolle o pieghe; come tenere con la mano sinistra il foglio di carta che ci si accinge a tagliare, rendendolo solidale della lama inferiore delle forbici lunghe in modo da guidare con maggior esattezza il taglio; come iniziare, con la giusta pressione delle dita, uno strappo affinché risulti ben netto, e poi guidarne con una delicata torsione dei polsi la traiettoria; e molti, molti altri gesti ancora, che a tutt'oggi fanno parte della mia quotidiana manualità.
Noterete che non ho menzionato pennelli, tavolozze, tubetti di colore, vasetti, solventi… come ci si potrebbe aspettare parlando di un artista. Di fatto, nello studio di mio padre questo genere di oggetti fece soltanto una fugace apparizione agli inizi della sua esuberante e multiforme produzione, lasciando nella mia memoria solo una debole, antica traccia. Ho soltanto un vago ricordo di qualche vasetto colorato che odorava stranamente, di alcuni pennelli umidi e di altri un po' più secchi, che occupavano un piccolo angolo del suo tavolo di lavoro quando questo era ancora nel soggiorno-studio-salotto del nostro appartamento al quinto piano. Erano ancora gli anni quaranta; poi, man mano che la sua produzione si diversificava, pennelli e colori lasciarono gradatamente il posto a carte colorate, pennarelli, forbici, nastri adesivi, taglierini, fustelle, corde, plastiche, tessuti… e nello studio degli anni sessanta bisognava andarli a cercare in fondo ad un cassetto. Ricordo che rimasi molto colpito quando un giorno mi disse, vedendomi disegnare un paesaggio: "perché ti affatichi a disegnare il cielo con una matita blu su un foglio bianco? Prendi un foglio azzurro, che è già il cielo, e poi se vuoi disegna le nuvole con la matita bianca!". Certamente: l'attrezzo giusto, con il gesto giusto, al momento giusto, per lo scopo giusto… Ma come si fa a sapere quando si è raggiunto il giusto?
Ne parlammo più volte, in diverse occasioni e in tempi diversi, di questo che per me è sempre stato uno degli interrogativi più affascinanti, perché porta inevitabilmente verso la comprensione della maestria, verso l'esplicitazione e quindi la valorizzazione delle competenze – che oggi è l'essenza stessa del mio mestiere di psicologo ed epistemologo. Ricordo la volta in cui, nella calma del suo studio privo di telefono – e di telefonino, che allora nessuno dei due possedeva – gli raccontai di come, nel lungo processo di costruzione della conoscenza, l'azione concreta costituisca il momento privilegiato in cui prendono forma simultaneamente il soggetto che conosce, l'oggetto che è conosciuto e gli strumenti stessi di questa conoscenza, e di quanto importante ed interessante sia allora riconoscere alla gestualità, sia essa voluta e coscientemente elaborata oppure anche spontanea ed automatizzata, lo statuto di atto intelligente. Ricordo che l'idea di una intelligenza del gesto – idea che oggi costituisce uno dei capisaldi del mio lavoro – gli piacque molto, in particolare perché illuminava con una luce nuova i laboratori per bambini a cui da un certo tempo ormai consacrava molti dei suoi pensieri. In fondo, e malgrado la loro diversità, non era proprio l'intelligenza del gesto che quei laboratori cercavano di promuovere, per poter poi meglio cogliere i segreti della creazione artistica? Ed in fin dei conti, non era dell'intelligenza dei suoi gesti, che testimoniavano tutte quelle opere, quelle prove, quei prototipi disparati che riempivano ogni angolo del suo studio?
Ma un gesto, è sempre "intelligente"? Direi di sì, ma ovviamente con gradazioni diverse: vi sono gesti più intelligenti di altri, così come vi sono persone più intelligenti di altre. Il gesto professionale dell'apprendista è certamente meno intelligente del gesto professionale del maestro d'arte. E così come ogni forma di apprendimento, la ricerca della maestria significa esercitare l'intelligenza del gesto affinché raggiunga i livelli più elevati. Una volta chiesi a mio padre come facesse a distinguere con così grande sicurezza un'opera d'arte da una che non lo era; mi rispose deciso: "l'opera d'arte è tale quando non lascia trasparire la fatica del gesto che l'ha fatta". Il sommo della maestria sarebbe allora quando questa non si lascia più vedere? Il sommo dell'intelligenza del gesto sarebbe allora quando questa scompare? Forse è proprio così, anche per l'intelligenza tout-court: il massimo dell'intelligenza è quando non dà mostra di sè. E' una cosa che ho cominciato ad imparare fin da bambino, quando passavo molte ore accanto a mio padre nel suo studio, a guardarlo lavorare.

Testo pubblicato in: Nello studio con Munari 
Corraini Editore, 2007. 
Con un testo di Alberto Munari, Con mio padre, nel suo studio ed un cortometraggio di Andrea Piccardo in DVD.

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