17.10.07

Con mio padre a Panarea


Andavamo quasi ogni giorno fino a Capo Milazzese, lungo il sentiero assolato che passava davanti alla trattoria Cincotta, per visitare i resti del villaggio preistorico, e cercare tra le pietre qualche piccolo frammento che ci potesse raccontare la vita di chi aveva vissuto 2'500 anni addietro in quelle capanne a pianta perfettamente circolare. Anche se a quell'epoca ero un ragazzino, avevo già avuto la possibilità di ammirare reperti e manufatti antichi in diversi musei; mai però avevo avuto prima di allora l'occasione di esplorare un sito archeologico vero e proprio, e per di più così facilmente accessibile, senza recinzioni, senza cartelli, senza guardiani: eravamo quasi sempre soli, mio padre Bruno ed io, su quel piccolo promontorio ancora temperato dalla brezza del mattino. Soli proprio come due veri esploratori, che avessero appena scoperto per primi le vestigia misteriose di un lontano passato. Ogni pietruzza, ogni coccio, ogni scheggia di ossidiana poteva essere un prezioso reperto – oppure un sasso qualsiasi. Cercavamo allora di individuare se qualcosa, un graffio, una linea di frattura, un intaglio, un'appendice di forma strana, poteva suggerire che il frammento che stavamo osservando avesse potuto appartenere a qualcosa di più grande, e tentavamo allora di immaginare l'aspetto che avrebbe avuto l'oggetto completo.
Eravamo così divertiti da questo giocare all'archeologo dilettante, che ben presto la preoccupazione di sapere se veramente si fosse trattato di un reperto prezioso oppure di un frammento casuale divenne secondaria, a fronte del piacere di immaginare oggetti e forme strane a cui avrebbe potuto comunque appartenere. Così, come spesso succede quando si impara un nuovo modo di pensare e di vedere, anche gli oggetti più comuni cominciarono improvvisamente ad acquisire nuovi significati e a suscitare rinnovate curiosità. E ciò non soltanto sul sito del villaggio preistorico, ma ovunque: ecco allora che il coperchio tondo in ferro della cisterna d'acqua piovana della nostra casa in località Ditella, poteva essere visto come un potenziale reperto... magari un frammento della parte centrale dello scudo da combattimento di un antico guerriero? E quel pezzo di legno cotto dal sole – di epoca presumibilmente più recente, visto che era di legno – trovato sotto il mandorlo del giardino, avrebbe potuto essere un frammento della gamba di legno di un misterioso pirata caraibico smarritosi nel mediterraneo? Eccoci allora alla ricerca di un grande foglio di carta bianca, meglio ancora se un po' ingiallita, su cui incollare quel pezzo di legno e disegnarci intorno l'intera gamba di legno, e poi anche tutto il pirata con tanto di benda sull'occhio sinistro (l'occhio di un pirata non può che essere sinistro!). E quell'insieme di macchie di salnitro che avevano fiorito sulla parete nord della camera da letto, così ben disposte l'una accanto all'altra ma a diverse distanze, poteva diventare la mappa di un possibile arcipelago eoliano scomparso da diversi milioni di anni? Bastò allora incollare a fianco di ogni macchia un piccolo cartellino con un nome inventato, per trasformare d'incanto quell'insieme di macchie in un'antica mappa geografica. Quasi ogni oggetto di quella semplice casa bianca e azzurra, quasi ogni pietra o radice secca del giardino del mandorlo, si prestò a questo appassionante gioco, tant'è che ben presto le tre stanze e la terrazza assomigliarono sempre di più ad un museo archeologico che ad una casa di vacanza.
Una volta compiuta, quasi inconsapevolmente, quest'imprevista mutazione, venne allora naturale l'idea di invitare all'inaugurazione del Museo Immaginario delle Isole Eolie il gruppo di amici che ci avevano accompagnato alla scoperta di quell'isola stupenda che allora, nel 1955, era ancora un angolo incontaminato di paradiso mediterraneo. Qualche fiasco di malvasia e un po' di mandorle del giardino bastarono per quel vernissage che verso il tramonto divenne assai affollato, di amici cari come Fulvio Bianconi, Piero Di Blasi, e altri ancora, così come di vicini stupiti e di estranei incuriositi, tutti però affascinati da quel gioco di para-archeologia che sicuramente contribuì a modificare il nostro modo di pensare i rapporti tra passato e presente, e il nostro proprio rapporto con il concetto stesso di museo.

Testo pubblicato in: Ingannare il tempo. Bruno Munari archeologo 
Edizioni Corraini, 2007 
Catalogo della mostra al Museo Civico Archeologico del Comune di Bologna.

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