17.10.07

Con mio padre a Harvard


Ricordo ancora il piacere che provavo a tenere fra le dita quel pezzetto di gesso sottile e perfettamente cilindrico come un pastello a cera. Di cerato però aveva soltanto la superficie esterna, che risultava così perfettamente liscia e setosa. Il gesso bianco, all'interno, era invece puro solfato di calcio ma straordinariamente fine e compatto, e lasciava una traccia perfetta sul linoleum verde della grande lavagna che occupava quasi tutta la parete nord dello studio di mio padre. Nella grande stanza a pian terreno, che la Harvard University gli aveva attribuito quando era stato invitato a tenere un corso di un semestre al Carpenter Center for Visual Arts, il sole primaverile che entrava dall'alta vetrata a piccoli riquadri si divertiva ad intrecciare pennellate di luce e piccoli arcobaleni con i segni bianchi lasciati dal mio gessetto.
Stavamo costruendo insieme quello schema che sarebbe poi stato pubblicato a pagina 85 di Design e Comunicazione Visiva – stampato la prima volta da Laterza nel 1968 e tutt'oggi in ristampa – allo scopo di analizzare le possibili modalità di percezione di un messaggio visivo da parte del suo fruitore. Era la primavera 1967, da tre anni ormai avevo conseguito la laurea in psicologia sperimentale all'Università di Ginevra e da più o meno lo stesso periodo stavo lavorando con Jean Piaget ad un programma di ricerca sulla percezione visiva, combinando nell'analisi statistica dei dati raccolti il modello della Signal Detection Theory di Green & Swets con quello costruttivista proposto da Piaget. Ero quindi immerso appieno in quella problematica, quando mio padre mi fece parte delle sue riflessioni sul come avrebbe dovuto essere costruito un messaggio visivo al fine di assicurarne la massima efficacia.
Ricordo il suo attento interesse, quando gli spiegavo che in realtà il luogo di elaborazione del significato di un messaggio si situa sempre presso chi lo riceve, non presso chi lo invia; e che le caratteristiche intrinseche del messaggio, così come del supporto che lo veicola, determinano di fatto solo una piccola parte dell'interpetazione che ne dà chi lo riceve. Questi, poi, è anche luogo di intersezione e di mediazione tra molteplici processi di diversa natura e situati a diversi livelli di realtà – neurofisiologica, sensoriale, operativa, culturale, ecc. – di modo che il grado di prevedibilità della sua risposta è sempre ben lontano dalla certezza.
Mi accorsi che quell'approccio gli risultava nuovo e inatteso – come d'altronde lo era stato per me, sette anni prima, all'inizio dei miei studi. Eravamo infatti entrambi cresciuti nella convinzione che il paradigma della razionalità dovesse sempre, in ultima analisi, sostenere e guidare il funzionamento della natura, delle cose e degli uomini. Mio padre poi era convinto che uno dei compiti fondamentali che avesse da svolgere, in quanto artista e soprattutto designer, fosse appunto quello di svelare e rendere accessibile a tutti la razionalità soggiacente ad ogni manifestazione della realtà.
E forse era proprio per questo che trovava così affascinante, in particolare, il fatto che i modelli di interpretazione proposti dalla Teoria dell'Informazione e dalla Signal Detection Theory – dei quali gli stavo raccontando la storia, iniziata nei primi anni '40 in quell'ambiente ingegneristico dove si sperimentavano i prototipi delle prime macchine cosiddette "intelligenti" – si prestassero così bene a descrivere anche il comportamento di un essere umano.
Mi resi conto che era proprio l'analogia con la macchina che permetteva a mio padre di comprendere meglio i processi che stavamo discutendo e di partecipare più attivamente all'elaborazione di quello schema. L'analogia con la macchina fotografica è infatti molto evidente nella rappresentazione che lo schema propone dei diversi "filtri" (sensoriali, operativi, culturali) attraverso i quali il messaggio è costretto a passare e dai quali sarà inevitabilmente modificato – proprio come, nella pratica della fotografia che mio padre ben conosceva, un filtro rosso o verde modifica sensibilmente il contrasto e la definizione dell'immagine quando viene riprodotta in bianco e nero. E ancora, quella fonte di perturbazioni aleatorie che le teorie dell'informazione chiamano "rumore" prese allora la forma, nel disegno dello schema, di una specie di pulviscolo contro il quale vanno a cozzare le traiettorie iniziali di alcuni messaggi, che vengono così deviati o dispersi, proprio come il pulviscolo galleggiante nell'aria disturba e devia il fascio di luce emesso da un proiettore.
E' anche particolarmente interessante notare come in quello schema figurava una sola, piccola e timida freccia di retroazione, non meglio qualificata se non dall'annotazione che è "interna" al soggetto ricevente. Lo schema infatti non indica la funzione di quella retroazione, né la necessità della sua presenza. Anche nel testo che commenta lo schema, quella freccia viene descritta – peraltro non esplicitamente – come una "risposta interna", che potrebbe anche essere di natura diversa da quella del messaggio ricevuto, e non come una retroazione che agisce, modificandola, sull'interpretazione del messaggio stesso o di analoghi messaggi successivi.
Ricordo molto bene le lunghe conversazioni che ebbi con mio padre, nel suo studio del Carpenter Center e poi nei salotti ovattati del Faculty Club, a proposito di quella piccola timida freccina, che io avrei forse già voluto più grande e meglio definita.
Mi rendevo però conto che per lui, che non aveva ancora avuto, come invece io ebbi, l'occasione e la fortuna di confrontarsi con quella profonda rivoluzione di pensiero provocata dall'avvento della Teoria Generale dei Sistemi, la presenza di un dispositivo interno al soggetto, la cui funzione è di modificarne costantemente le caratteristiche, era difficilmente comprensibile.
Ma la metafora della macchina ci venne ancora una volta in aiuto. Già da un po' di anni infatti erano comparse, non solo nei grandi padiglioni della Olivetti – dove mio padre ebbe l'occasione di osservare le prime "macchine a controllo numerico" – ma anche nella nostra vita quotidiana, delle apparecchiature capaci di "autocorreggersi" e di mantenere nel tempo un'impostazione predefinita, malgrado l'intervento di perturbazioni esterne.
Oggigiorno, fra i nostri elettrodomestici, numerosi sono i dispositivi a termostato – scaldabagno, forno, frigorifero, ecc. – tant'è che non vi prestiamo più alcuna attenzione; bisogna ricordarsi però che per la generazione di mio padre l'avvento del frigorifero costituì una profonda rivoluzione, sia pratica che concettuale, dopo decenni e decenni di fatiche per trasportare pesanti blocchi di ghiaccio con i quali rifornire ogni giorno la "ghiacciaia", e per svuotare poi i secchi dell'acqua che perdeva.
Non fu dunque particolarmente difficile spiegargli il concetto di feed-back negativo: di quel dispositivo di retroazione cioè il cui scopo è di correggere una devianza, uno squilibrio, per riportare il funzionamento dell'apparecchio all'interno di una norma prestabilita – proprio come fa il termostato. Ma era solo questo il significato di quella piccola freccina ricurva all'indietro? Di ristabilire un equilibrio interno, che la ricezione del messaggio avrebbe potuto perturbare? Il soggetto ricevente rimarrebbe dunque sempre immutato, una volta ristabilito l'equilibrio che era stato momentaneamente perturbato dal messaggio ricevuto? Come spiegare il fatto che un messaggio possa a volte indurre un cambiamento permanente nel soggetto che lo riceve? Come spiegare cioè il valore educativo che in certe circostanze anche un messaggio visivo potrebbe avere?
E' qui che incontrammo le maggiori difficoltà. Perché se la metafora della macchina può essere di grande aiuto per spiegare la retroazione negativa, essa diventa addirittura un ostacolo per capire il feed-back positivo. La retroazione positiva è infatti quella che non corregge, ma amplifica una deviazione: ora, nel mondo delle macchine un tal dispositivo porta inevitabilmente alla distruzione, alla saturazione o comunque al bloccaggio della macchina – come ad esempio quando un microfono troppo vicino al suo altoparlante provoca quel fastidioso fischio che satura e rende inservibile l'amplificazione.
Per capire il ruolo non solo utile, ma indispensabile, della retroazione positiva bisogna abbandonare il mondo delle macchine ed entrare in quello del vivente, della biologia. Il feed-back positivo è infatti un dispositivo assolutamente indispensabile ovunque vi sia un processo di mutazione e di crescita: non di una crescita per accumulazione però, bensì di una crescita per cambiamento. E' un dispositivo di questo genere, ad esempio, che all'interno della cellula coglie quel minuscolo fremito nascente e lo amplifica a valanga fino a provocare la scissione della cellula in due nuovi individui.
Ogni essere vivente è un sistema complesso dove innumerevoli dispositivi di retroazione positiva interagiscono con altrettanti dispositivi di retroazione negativa, in un gioco estremamente delicato di equilibri e di squilibri grazie al quale il soggetto vive, si trasforma ed evolve pur conservando la propria identità.
La difficoltà, qui, consiste nell'abbandonare l'ideale vittoriano di un progresso inteso come crescita continua e regolare, guidata da princìpi di fondo immutabili, e nell'accettare invece una concezione della vita intesa come un processo instabile, la cui direzione e le cui caratteristiche possono essere ridefinite ad ogni istante, quindi intaccato da un'irriducibile imprevedibilità locale, anche se globalmente vi si può riconoscere una certa coerenza.
Anche per un uomo aperto alla novità e curioso di ogni punto di vista alternativo, ma pur sempre partecipe del sogno novecentesco di un progresso dovuto alla rinascita della ragione, come era mio padre, non era facile accettare l'idea di un mondo ove il disordine sembra essere la regola, e l'ordine l'eccezzione.
Design e Comunicazione Visiva ha superato la decima ristampa nella sua veste attuale, ed è tutt'ora utilizzato come manuale di riferimento in moltissime scuole di design in Italia e nel mondo – segno evidente della sua perenne freschezza e costante attualità.
Ma riesaminando con i miei occhi di oggi quello schema, mi rendo conto di quanto lontani siano in me quei giorni della primavera 1967 – non tanto dal punto di vista semplicemente cronologico, quanto soprattutto dal punto di vista concettuale. Oggi non riesco più a pensare ad un "emittente" indipendentemente da un "ricevente": non vi è nessun emittente, se non vi è un soggetto che lo riconosca come tale. Né trovo abbia senso parlare di "messaggio", indipendentemente dall'istanza che gli riconosca questo statuto. Non soltanto The medium is the massage – come diceva Marshall McLuhan nel suo libro omonimo, pubblicato proprio in quell'anno 1967 – ma il messaggio è il soggetto – come diremmo noi oggi.
Dopo gli studi pionieristici di Piaget, le "macchine non banali" di Heinz von Foerster e le tesi autopoietiche di Humberto Maturana e Francisco Varela, la conoscenza non ci appare più come la risposta ad un messaggio, né come la riproduzione di una "realtà" ad essa esterna: la conoscenza ci appare invece come la ri-produzione continua e a tutti i livelli di sè stessa: la produzione autonoma delle proprie forme di organizzazione.
In altre parole, oggi quella freccina diventerebbe così grande da inglobare lo schema intero.
Ma allora eravamo nel 1967: la rivoluzione culturale del maggio '68 francese non aveva ancora risvegliato le coscienze, e la "scoperta" della complessità avrebbe sconvolto le scienze della natura e dell'uomo soltanto una quindicina di anni dopo. Quella freccina, allora, rimase così, piccola e discreta, fra le pennellate di luce e i piccoli arcobaleni del sole primaverile del Massachusetts, ma la sua presenza già annunciava l'avvento di una nuova visione del conoscere.

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